La Musica si può analizzare scientificamente e oggettivamente come suono, possiamo parlare della sua altezza, del timbro, della durata; possiamo discutere nota dopo nota della tecnica compositiva del brano musicale, ma non si riesce mai pienamente a valutare quale impatto determinerà nell’ascoltatore.
John Sloboda, musicologo e rappresentante della Psicologia Cognitivista, afferma che «vista con il freddo occhio del fisico, un evento musicale è solo una raccolta di suoni di varia altezza, durata, e altre qualità misurabili. In qualche modo, la mente umana attribuisce a questi suoni un significato. Essi diventano simboli per qualcos’altro che va al di là del puro suono, qualcosa che induce a piangere o a ridere, che piace o dispiace, che commuove o lascia indifferenti.»
La Musica è un’arte invisibile, impalpabile, eppure così potente da riuscire a toccare nel profondo il nostro animo. La Musica alle volte ha la capacità di far viaggiare nello spazio e nel tempo, di far rivivere un ricordo passato o trasportare in un altrove immaginario.
La musica può diventare una via di fuga: una frase che si può leggere in chiave romantica e fantastica, ma che tristi pagine di Storia hanno reso reale. La musica durante la Seconda Guerra Mondale nei campi di prigionia e di sterminio nella Germania nazista è stata per molti una via di fuga, sopravvivenza o dolce oblio.
La musica nei campi di concentramento
La musica composta nei campi di concentramento è una pagina ancora poco conosciuta. C’era musica, ma utilizzata per le finalità più bieche. I nazisti se ne servivano per mantenere l’ordine e la calma o per nascondere urla ed esecuzioni. Al suono di allegre marcette e canzoni popolari, i deportati venivano accompagnati dai treni della morte fino alle camere a gas. Oppressi, perseguitati, ridotti a morti che camminano: la musica fu un’ancora di salvezza, un atto di resistenza alla morte, una via per sopravvivere capace di dar loro speranza anche nel fondo dell’abisso.
Nei campi furono deportati anche grandi musicisti e compositori che hanno continuato a coltivare la passione per la musica suonando e componendo; alle volte di nascosto, qualche volta con il favore delle guardie. Era l’unica via di fuga all’orrore quotidiano, un atto di forte affermazione della propria umanità e di resistenza alla morte.
Molto spesso non si aveva a disposizione carta su cui scrivere e gran parte di queste pagine di musica sono state ritrovate in pezzi di stoffa, carta igienica, sacchi di juta oppure tramandate per via orale sperando che qualcuno sopravvivesse all’orrore del campo.
In particolare, nei campi di concentramento dove si trovavano prigionieri politici non era permesso scrivere musica. In altri invece esistevano addirittura delle orchestre, divise per genere (o tutte maschili o tutte femminili) solo a Theresienstadt c’era un’orchestra mista; a Buchenwald c’era una di 80 elementi, ad Auschwitz invece ben sette.
Un mezzo sublime per il più perverso degli scopi
Che fosse concesso suonare e avere strumenti musicali non va letto come un gesto di generoso disinteresse: la musica veniva utilizzata come mezzo sublime per il più perverso degli scopi. Ad esempio, il famoso musicista polacco Artur Gold deportato a Treblinka fu ricevuto con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari e poi fu ucciso.
Disarmante la storia di Ilse Weber, un’ebrea ceca, scrittrice di poesie e favole per bambini. Il 6 ottobre 1944 accompagnò suo figlio Tomáš e altri bambini nelle docce di Auschwitz; la guardia delle SS le consigliò di sedersi per terra coi bambini e cantare con loro, in modo da inalare il gas più in fretta e morire prima che si diffondesse il panico. Anni dopo il marito, sopravvissuto, ha ritrovato accanto a un capanno degli attrezzi a Theresienstadt le opere di Ilse: le aveva sotterrate lì nella speranza che qualcuno un giorno le trovasse.
Il testo della canzone “Wiegala” è in lingua ceca, la lingua della sua casa, una dolce melodia composta da Ilse Weber che è rimasta nella memoria come un simbolo del massacro di tutti gli innocenti. La musica è tutto ciò che ai deportati restava e spesso tutto ciò che resta di loro.
La musica prodotta in cattività aveva poteri taumaturgici, rovesciava letteralmente le coordinate umanitarie dei siti di prigionia e deportazione, polverizzava le ideologie alla base della creazione di Lager e Gulag. Forse non salvava la vita, ma sicuramente questa musica salverà noi.
Francesco Lotoro
Un grande e lungo lavoro di ricerca nel ritrovare e documentare queste preziose pagine di musica è stato compiuto dal musicologo e pianista Francesco Lotoro. Un’impresa che dura da più di trent’anni grazie a cui ha recuperato oltre 5.000 composizioni musicali nate nei lager nazisti e nei campi di prigionia della Seconda Guerra Mondiale. Testimonianze di inestimabile e altissimo valore umano: musiche di libertà, musiche per salvare la propria vita e l’unica virtuale via di fuga dall’orrore quotidiano.
La scrittrice francese Marguerite Yourcenar disse: «la musica mi trasporta in un mondo in cui il dolore non smette di esistere, ma si allarga, si placa, diventa insieme più calmo e più profondo». Così per gli ebrei prigionieri la musica era sostegno, un modo di darsi forza l’un l’altro. Se gli uomini scompaiono, la musica però sopravvive e così noi oggi possiamo ascoltare la voce di un’arte che canta la tragica vicenda dell’occidente sull’orlo dell’abisso.
Per un approfondimento consiglio il libro “Un canto salverà il mondo” di Francesco Lotoro.
Leggi anche:
Futura di Lucio Dalla è solo una canzone
Perché ascoltare musica ci fa stare bene?
No Comments