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Tutto è musica, anche il rumore. Basta metterci una cornice?

A meno che non viviate tra le stelle (beati voi!) sicuramente non potete non essere stati colpiti dalla recentissima polemica relativa all’ultima opera d’arte di Maurizio Cattelan (con l’accento sulla a, è padovano): la banana appiccicata al muro con del nastro adesivo. Un polverone mediatico che mi ha fatto tornare alla mente un passo dell’autobiografia di Frank Zappa dal titolo “La cornice”:

«Nell’arte la cosa più importante è la cornice. Nella pittura è letteralmente così, per le altre arti solo in senso figurato, perché senza quell’umile oggetto non è possibile capire dove finisca L’Arte e dove inizi Il Mondo Vero. È necessario metterci un contenitore attorno o altrimenti si direbbe: che cos’è quella merda sul muro?

Se John Cage per esempio dicesse: “Ora metto un microfono a contatto con la gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una sua composizione, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prende o lasciare, ora Voglio che questa sia musica”.»

“I’m famous, but most people don’t even know what I do” Frank Zappa

Quindi che cos’è Musica? Come per le altre arti, basta che qualcuno la definisca tale e lo diventa? È una delle grandi questioni che hanno animato le discussioni artistiche da inizio Novecento, si sono scritte intere biblioteche e ci sono interessantissime opinioni di musicologi, sociologi, etnomusicologi, filosofi… Frank Zappa però mi ha ricordato John Cage. Vi parlo di “rumore”: può essere Musica?

Ultimamente si fa un gran parlare della nuova figura dei Sound Designer o Sound Artist: artisti sonori che trasformano i rumori prodotti da oggetti e i suoni dalla vita di ogni giorno in musica. Ascoltano, registrano, campionano e danno voce e musicalità a ciò che comunemente è percepito come rumore.


Viene percepito e raccontato come qualcosa di molto innovativo. Si può arrivare alla sonorizzazione della stazione di Torino Porta Susa, alla creazione di paesaggi sonori campionando i suoni delle macchine del caffè, ad installazioni artistiche che portano la pioggia all’interno di un museo. Qualcosa di futuristico.

Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll’uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha creato oggi tanta varietà e concorrenza di rumori che il suono puro, nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione”

Questo è qualcosa di Futuristico! Eppure risale all’11 marzo 1913: è un estratto da “L’arte dei rumori”, uno dei Manifesti del Futurismo scritto da Luigi Russolo che potete leggere per intero cliccando qui. Russolo dà il via al processo di emancipazione del suono e del rumore dalla musica tradizionale e la sua trasformazione in musica, anche se qualche accenno si può ritrovare nella musica classica di fine Ottocento, come i famosi campanacci da mucca nella Sinfonia n. 7 di Mahler.

La visionarietà di Luigi Russolo ha portato alla teorizzazione del “suono-rumore”, delle sei famiglie di rumori dell’orchestra futurista, fino alla creazione degli “intonarumori”.
Il rumore inizia ad essere considerato come suono musicale: concetto che si è espresso in tutta la sua portata rivoluzionaria negli anni Cinquanta, anche grazie alle nascita delle nuove tecnologie come sintetizzatori e registratori.

Cosa sia considerabile come musicale e cosa no dipende dal concetto soggettivo di Musica. In potenza a nulla dell’esistente è preclusa la possibilità di diventare musicale.

Tra gli artisti che più hanno studiato e affrontato queste tematiche spicca John Cage che nel suo testo “Il futuro della musica: il mio credo” (1937) scrive: «Ovunque ci troviamo, quello che sentiamo è in gran parte rumore. Quando lo ignoriamo ci disturba. Quando gli prestiamo ascolto, lo troviamo affascinante (…) Noi vogliamo catturare e controllare questi rumori, usarli non come effetti sonori bensì come strumenti musicali.»

Una chiara ripresa dei concetti espressi da Russolo che porterà Cage a concepire potenzialmente tutto come musica: i suoni del mondo erano musica, anche il battito del cuore poteva essere musica. Cage trovava musicale anche il suono della trafficatissima Avenue of the Americas, la Sesta Strada di New York. Sirene, clacson, lo stridore dei freni, il ritornello dell’autobus che passava con regolarità: “Ma la sente questa musica?” chiedeva.

John Cage è stato un “compositore ed esecutore di musiche avveniristiche” (così lo definì “La Stampa” nel 1959) arrivò ad esempio a comporre opere con cactus secchi raccolti nel deserto (“Child of Tree” del 1975 e “Branches” del 1976) in cui gli strumenti di ogni performer includono uno o più cactus amplificati, insieme ad altri oggetti di origine vegetale o animale.


Nel 1956 John Cage partecipò come esperto di funghi al telequiz “Lascia o raddoppia?” condotto da Mike Bongiorno e vinse 5 milioni di lire. Durante lo spettacolo si esibì in un concerto chiamato “Water Walk” in cui gli strumenti erano: una vasca da bagno, un innaffiatoio, una pentola a vapore, cinque radio, un pianoforte, cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori.

Surreale il dialogo tra John Cage e Mike Bongiorno:
B: Bravo bravissimo! Beh, il signor Cage ci ha dimostrato che indubbiamente se ne intendeva di funghi… quindi non è solo un personaggio venuto su questo palcoscenico per fare strambe esibizioni di musica strambissima.
C: Un ringraziamento a… funghi, alla Rai e a tutti genti d’Italia.
B: Arrivederci: torna in America o resta qui?
C: Mia musica resta.
B: Ah, lei va via e la sua musica resta qui: ma era meglio che la sua musica andasse via e che lei restasse qui!

Cage replico la performance “Water Walk” in un famoso programma televisivo americano nel 1960 davanti ad un pubblico tra lo sconvolto e il divertito (potete vederla cliccando qui). Così commentò la critica musicale Laura Paolini:

Arte alta e bassa cominciavano a sentirsi più a proprio agio l’una con l’altra. Tutti videro qualcosa mai visto prima. Tutti si fecero un’opinione. Così si forma un pubblico.

Laura Paolini

La ricerca di John Cage non è solo questo: arriva a concepire la musica aleatoria e a studiare il silenzio, come assenza di rumori e al contempo creatore di musica. Molti altri musicisti e studiosi portarono avanti le ricerche di sperimentazione musicale e non posso non citarvi Brian Eno e i suoi famosi quattro album “Ambient” dal primo “Music for Airports” (1978) al quarto “On land” (1982) una “miscela” di note di sintetizzatore, suoni naturali/animali, alcuni anche ricavati da pezzi di catene, bastoni e pietre.


Theodor W. Adorno conclude la sua “Introduzione alla sociologia della musica” con la frase: «Ma più essenziale che stabilire l’origine dell’uno o dell’altro fatto è il contenuto: come cioè la società appare nella musica, come essa può essere decifrata dal suo contesto».

A nulla di ciò che esiste può essere preclusa la possibilità di diventare una determinante musicale: oggi si può dubitare che l’Universo intero sia un’armonia, ma potenzialmente è musicabile.

Puoi ascoltare questo articolo nella sua versione Podcast cliccando qui.

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La nascita del repertorio: dalle orchestre di musica classica alle cover band


Vi è mai capitato di sentire qualcuno dire: “Domani sera vado al concerto dei Pink Floyd” (oppure dei Queen, dei Led Zeppelin…) Quando mi succede rimango sempre un attimo perplessa: c’è la reunion e non lo so? È risorto qualcuno? Poi realizzo: la Tribute Band! D’altronde perché scandalizzarsi? Anche le orchestre di musica Classica alla fine non sono altro che delle patinatissime cover band… o no?

Riassumendo l’annosa diatriba “musica originale vs cover band” si arriva ad un paradosso del genere. Ormai le cover/tribute band che omaggiano i grandi della musica Pop e Rock sono sempre di più, anzi quasi la totalità dei gruppi che si esibiscono nei piccoli locali e club; ultimamente anche nei grandi teatri e festival, rientrando in cartellone accanto alle grandi star internazionali.


Quando è cominciato tutto? Nel corso della storia della Musica non è sempre esistito il concetto di “repertorio”, ovvero i grandi capolavori e musicisti immortali da conoscere, studiare e trasmettere a tutte le successive generazioni. La nostra posizione di ascoltatori oggi è molto diversa rispetto a quella di chi è vissuto secoli fa. Può sembrare strano, ma in passato il pubblico ascoltava i compositori della generazione presente e i musicisti studiavano al massimo quella di una o due generazioni precedenti. La musica più antica non interessava, cessava di esistere e lasciava il posto a nuove sonorità, più moderne e vicine al gusto del pubblico contemporaneo.

La dimensione di musicisti e ascoltatori – almeno per quanto riguarda la Storia della Musica occidentale – è iniziata a cambiare solo nel Settecento, con l’affermarsi del concetto di “classicità” applicato alla Musica. Si inizia a pensare che un’opera abbia un valore al di là della sua funzione contingente e che possa permanere nel tempo come capolavoro artistico. 

Anche l’affermarsi dell’editoria musicale e il diffondersi delle riduzioni per canto e pianoforte hanno in seguito contribuito ad orientare il pubblico verso una fruizione di tipo diverso, in cui il teatro era anche il luogo in cui assistere a nuove interpretazioni di opere già note. Storicamente gli studiosi hanno individuato uno dei momenti cardine di questo cambiamento nella prima esecuzione moderna della Passione Secondo Matteo di J.S. Bach, diretta da Felix Mendelssohn a Berlino nel 1829.

Dopo la sua morte (Lipsia, 1750) anche la musica di Bach era stata soppiantata dalle opere dei suoi successori, proprio per il modo che si aveva allora di concepire la musica. Suo figlio lo chiamava “vecchia parrucca” e come tutti gli preferiva autori più moderni: era già considerato sorpassato.

I circoli berlinesi in cui Mendelssohn era cresciuto hanno cominciato un inarrestabile percorso che mirava alla diffusione delle opere dei tempi passati. La Musica inizia così ad essere considerata in senso storico, con una sua evoluzione e con i suoi Maestri, così come accadeva già per le arti figurative, il teatro e la letteratura. Da fine Ottocento nei programmi di concerto, accanto alle musiche nuove, iniziano ad essere inserite anche le composizioni dei grandi del passato che nel Novecento finiranno per soppiantare quasi totalmente le opere di autori contemporanei.

Oggi il concetto di “repertorio” è fondamentale e il musicista classico che si dedica unicamente alle proprie composizioni o ad un repertorio contemporaneo è considerato uno specialista. La musica Classica contemporanea circola più in ambienti “di nicchia” che non in quelli mainstream e il repertorio che il pubblico ascolta in assoluta maggioranza e interesse è innegabilmente legato ai secoli passati.


Non sembra la descrizione di quello che sta succedendo ora? La storia è fatta di corsi e ricorsi, forse è il caso di chiederci se non siamo arrivati ad un punto di svolta così radicale anche per la musica Pop e Rock. A pensarci bene, tranne meteore passeggere create ad hoc per un pubblico di giovanissimi, da una decina di anni ad oggi sono pochi sono gli artisti ancora in auge, mentre i Big sono sempre più intramontabili (ad esempio: Achille Lauro farà veramente la carriera di Vasco, per quanto ne sentiremo parlare?). Nelle piccole realtà cittadine la situazione è ancora più lampante: i concerti di giovani musicisti che eseguono musica propria sono sempre meno, il pubblico interessato è pochissimo e sempre più “di nicchia”. Mentre sono seguitissime le tribute e cover band che con i loro concerti dedicati ai “grandi classici” della musica Rock e Pop riempiono anche teatri e palazzetti.

Beatles, Queen e Pink Floyd saranno i nuovi Mozart, Bach e Beethoven?

Merito dei musicisti del passato o demerito dei musicisti del presente? Colpa del music business? Colpa della musica liquida, di Spotify e dei talent show? “It’s evoloution baby!”

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Futura di Lucio Dalla è solo una canzone


Quando parliamo di Musica, non parliamo mai solo di musica.

Parlare di Musica, lo raccontavo nella presentazione di Musicologica, è parlare di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Una semplice canzone può essere molto più che un intreccio di musica e parole, ma in fondo tutti sappiamo o pensiamo di sapere che cos’è la canzone, almeno quella italiana. Guardando Sanremo, criticando X Factor, ascoltando Spotify o la radio, lo sappiamo: è lo specchio della nazione, un frammento nel nostro passato, la colonna sonora del suo tempo…

Sappiamo che è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse il Nobel vinto da Bob Dylan ha dato nuova luce alla canzone riproponendola come oggetto di comunicazione storica. Su questi concetti Jacopo Tomatis ha scritto un bel libro “Storia culturale della canzone italiana” con la consapevolezza e l’ambizione che fare una storia della canzone in Italia non significa “solo” parlare di musica, ma contribuire con un tassello importante alla storia culturale del Paese.  

Faccio un passo indietro e torno al 9 novembre 1989. Sono passati 30 anni da quel giorno… ed è impossibile parlare della storia del Muro di Berlino senza parlare del forte legame che ha avuto con la musica. La sua storia è costellata di brani musicali ispirati e dedicati a quello che, da simbolo di divisione e oppressione, è diventato simbolo di libertà.

Da “Wind of Change” degli Scorpions, la canzone simbolo della caduta del Muro e della riunificazione della Germania (dove è tuttora la canzone più venduta di sempre). A “Heroes” di David Bowie; “A Great Day for Freedom” dei Pink Floyd; “Alexanderplatz” di Franco Battiato e Milva, solo per citarne alcuni dei più famosi.

Alla lista non può mancare Bruce Springsteen che nel luglio del 1988 tenne un concerto a Berlino Est davanti a 300 mila persone. Durante la cover di Bob Dylan “Chimes of Freedom” (in italiano “Le Campane della Libertà”) fece un discorso divenuto leggendario che contribuì ad aprire le prime crepe nel Muro: «Non sono venuto qui per cantare a favore o contro alcun governo, ma soltanto a suonarvi rock ‘n’ roll, nella speranza che un giorno tutte le barriere possano essere abbattute.».

Come ha sottolineato qualche anno fa l’ex presidente della Repubblica Federale Tedesca, Christian Wulff:

«Il muro non è caduto nel 1989, ma fu buttato giù!»
e anche la musica ha dato le sue picconate.

Faccio un passo ancora più indietro, nel 1979. Quando il mondo intero era diviso in due da quel Muro. Tra le tante storie che quei mattoni possono raccontare, ce n’è una che è rimasta cristallizzata per sempre in una canzone. È nata su una panchina, una delle tante davanti a quel muro. È nata dalla fantasia e dalla poesia di Lucio Dalla. È nata Futura:


La scrissi a Berlino. Non avevo mai visto il Muro e mi feci portare da un taxi al Checkpoint Charlie, punto di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest. Mi sedetti su una panchina e mi accesi una sigaretta. Poco dopo si fermò un altro taxi. Ne scese Phil Collins, si sedette sulla panchina accanto alla mia e anche lui si mise a fumare una sigaretta. In quei giorni a Berlino c’era un concerto dei Genesis, che adoravo. Ebbi la tentazione di avvicinarmi a lui per conoscerlo, per dirgli che anch’io ero un musicista. Ma non potevo spezzare la magia di quel momento. Rimanemmo mezz’ora in silenzio, ognuno per gli affari suoi. In quella mezz’ora scrissi il testo di Futura, la storia di due amanti, uno di Berlino Est, l’altra di Berlino Ovest che immaginano di fare un figlio…


È solo una canzone. Sono solo musica e parole, ma quanta storia racconta. È una canzone di speranza nata in un luogo dove mille speranze sono state distrutte. È una canzone di guerra, di un amore nato in un momento in cui anche il destino di una giovane coppia dipendeva dalle decisioni di due superpotenze enormi ed invisibili. “Non esser così seria, rimani. I russi, i russi, gli americani. No lacrime, non fermarti fino a domani”.

È una canzone di terrore, di una generazione di padri e madri che coraggio ne hanno avuto tanto per sognare un futuro che poteva essere spazzato via da un pulsante rosso: “Ma non fermarti voglio ancora baciarti. Chiudi i tuoi occhi non voltarti indietro. Qui tutto il mondo sembra fatto di vetro. E sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio”.

È solo una semplice canzone, che Berlino e quel Muro non li nomina mai.
Una canzone diventata un simbolo di speranza, di futuro e di amore.

Aspettiamo che ritorni la luce
Di sentire una voce
Aspettiamo senza avere paura, domani

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Il suono muove la materia, guarda cosa può fare la musica

fiamme mosse dalla musica, cimatica


“La musica è il linguaggio magico del sentimento” è una definizione che mi è sempre piaciuta, a discapito dei freddi rapporti artificiosi dell’armonia. Musica e regole matematiche sembrano due mondi lontanissimi, invece studiando la teoria musicale si scopre come tutto segua delle regole precise. Nel Medioevo, ad esempio, la Musica (“ars musica”) veniva insegnata nel Quadrivio insieme alle discipline attribuite alla sfera matematica (Aritmetica, Geometria, Astronomia); è solo con l’età moderna che la sua parte emotiva ha guadagnato terreno.

Aspetto teorico e aspetto emotivo (almeno nella cultura musicale occidentale) sono due facce della stessa medaglia che vanno a completarsi l’un l’altra. Prendendo a prestito la filosofia di Eraclito: l’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia.

Ascoltare una bella melodia e pensare che risponda a specifici rapporti matematici ha un fascino misterioso studiato da una branca della Fisica: l’acustica. È la scienza teorica e sperimentale del suono che studia i fenomeni relativi alla produzione e propagazione delle onde sonore, le leggi che regolano la vibrazione dei corpi, la loro applicazione nella teoria musicale e negli strumenti, la ricezione del suono etc.

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Il suono si muove nello spazio sotto forma di vibrazioni e si propaga per onde sferiche in modo uniforme in tutte le direzioni decrescendo man mano che aumenta la distanza (il classico esempio del sasso gettato nello stagno che crea tutta una serie di onde concentriche). Sono lontani ricordi di scuola e ora non vorrei dilungarmi in formule e diagrammi. Analizzare i rapporti con cui le discipline acustiche della Matematica e della Fisica indagano la Musica non chiarisce nulla del suo pathos, ma possono realizzare una magia: far “vedere” la musica e cosa può fare una musica.

Se si prende una lastra metallica cosparsa di sabbia finissima, la si collega ad un altoparlante e si fa partire una musica guardate cosa succede: al variare delle frequenze i granelli si spostano sulla lastra creando geometrie perfette. Sembrano dei bellissimi mandala.

L’esperimento, conosciuto come “lastre di Chladni”, prende il nome dal musicista e fisico tedesco Ernst Chladni che iniziò a studiare questi fenomeni di acustica già alla fine del 1700. Lo studio venne poi ripreso dal medico svizzero Hans Jenny nel 1967 che ne coniò anche il nome: “cimatica” (dal greco kyma “onda”) che significa “studio riguardante le onde”.

La cimatica è un portale sul mondo invisibile del suono.

Ascoltare una musica crea emozione, suggestione, può trasportare in mondi immaginari meravigliosi grazie alla fantasia e alla sensibilità di chi ascolta. Nel caso di questi esperimenti invece la spiegazione è scientifica, ma non meno affascinante e misteriosa. D’altronde lo aveva già detto Pitagora: “la geometria delle forme è musica solidificata.

La cimatica ha ispirato anche il musicista neozelandese Nigel Stanford che ha realizzato una serie di esperimenti facendo interagire la musica con diversi materiali: acqua, fuoco, sabbia e anche le bobine di Tesla. Il risultato è un video da 28 milioni di visualizzazioni. Impressionante, affascinante.

Cosa può fare una musica? Ascoltate Guardate:


Se questi esperimenti di Cimatica vi hanno incuriosito, consiglio di visitare anche il suo sito ufficiale https://nigelstanford.com/Cymatics/ per curiosare nei “dietro le quinte” e scoprire tutto quello che la musica può fare!

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Chi ha inventato il nome delle note?


Le note sono sette e le conosciamo tutti: Do Re Mi Fa Sol La Si. È una di quelle nozioni che si imparano a scuola da piccoli e non si dimenticano più, come la Mesopotamia “mezzaluna fertile tra il Tigri e l’Eufrate” e le industrie siderurgiche e metallurgiche, passepartout alle interrogazioni di Geografia.

Anche se poi non si è diventati musicisti e la carriera musicale si è conclusa con il flauto delle Medie, i sette nomi delle note li ricordiamo ancora. Ma chi ha inventato il nome delle note? E perché proprio quelle sette sillabe?

Non sono state scelte a caso e hanno un’origine ben precisa. I nomi delle note, nei paesi latini, vennero introdotti nei primi decenni del XI secolo da un italiano, il teorico musicale e monaco benedettino Guido d’Arezzo (992 ca – 1050 ca) che ideò la formula mnemonica per ricordare l’esatta intonazione delle note dell’esacordo (successione di sei suoni) assegnando a ciascuna un nome (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La) corrispondente alla prima sillaba di ogni emistichio di un inno gregoriano a San Giovanni.

Ut queant laxis è l’inno liturgico cantato ai Vespri del 24 giugno per la solennità della natività di San Giovanni Battista (anticamente considerato il patrono dei musicisti) composto dal monaco, storico e poeta, Paolo Diacono (Cividale del Friuli, 720 –Montecassino, 799)
«Ut queant laxis       
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Iohannes»
«Affinché possano cantare
con voci libere
le meraviglie delle tue gesta
i servi Tuoi,
cancella il peccato
dal loro labbro impuro,
o San Giovanni»


Guido d’Arezzo si accorse che ogni metà verso iniziava con uno dei sei suoni della scala: la sillaba ut corrispondeva al suono che oggi chiamiamo Do, la sillaba re di “resonare” al Re e così via. Questo sistema teorico chiamato “solmisazione” (la prima forma di solfeggio) fu fondamento della pratica e della didattica musicale in Europa fino a tutto il Cinquecento e oltre.

L’uso di queste sillabe permetteva a scolari e musicisti un più facile apprendimento della musica grazie anche allo stratagemma mnemonico della “mano guidoniana” che appare in molti manoscritti medievali. Per aiutare la memorizzazione dell’esatta intonazione dei gradi della scala musicale ad ogni parte della mano si faceva corrispondere una nota, che lo studente doveva cantare utilizzando i gesti usati nel solfeggio.

Mano Guidoniana

Il Si, la settima nota della scala di Do, si affermò nel XVII secolo col decadere del sistema modale costruito sull’esacordo (la scala di 6 suoni) e con l’imporsi del sistema tonale, basato sulla scala di 7 note. Il nome deriva dall’unione delle lettere iniziali delle parole “Sancte Johannes”, l’ultimo verso della prima strofa dell’Inno usato da Guido d’Arezzo.

Sempre nel XVII secolo l’Ut (ancora oggi in uso in Francia) di difficile pronuncia si trasformò in Do per iniziativa del teorico fiorentino Giovanni Battista Doni che si servì della sillaba iniziale del suo cognome o forse della parola “Dominus” (Signore).

Prima dell’introduzione delle sillabe di Guido d’Arezzo come si faceva? Si utilizzava la notazione alfabetica, con cui si fanno corrispondere i suoni della scala ad una lettera dell’alfabeto. È un’antica forma di notazione che si ritrova sia nelle civiltà orientali (come Cina e India) sia nella Grecia classica. (Nel corso del Medioevo si affermò anche la notazione neumatica che utilizzava simboli grafici, ma è un’altra lunga storia).

Oggi la notazione alfabetica è ancora utilizzata nei paesi anglosassoni: le prime sette lettere dell’alfabeto corrispondono alle sette note.


È utilizzata anche nei paesi di lingua tedesca con una variante: A B C D E F G H corrispondo alle note: La, Si bemolle, Do, Re, Mi Fa, Sol, Si bequadro.

La notazione ellenica fu usata a Roma fino agli inizi del Medioevo, le lettere dell’alfabeto greco vennero sostituite con le prime 15 lettere dell’alfabeto latino (da A a P) dal filosofo e letterato Boezio (fondamentale l’opera in 5 libri “De istituzione musicae” del 500-507) in un sistema che si componeva di 15 suoni divisi in 2 ottave. Questa notazione fu poi codificata nel X secondo da Oddone di Cluny usando le prime 7 lettere l’alfabeto latino per indicare le note a partire dalla scala ascendente di La.

Quindi attenzione perché anche oggi nella notazione anglosassone A corrisponde alla nota La e non al Do. Non si sa con certezza come mai Oddone di Cluny considerò come nota di partenza il La, forse perché è la nota convenzionale di accordatura degli strumenti oppure, più probabilmente, perché dal primo modo gregoriano si ottiene quella che poi sarebbe diventata la scala di La minore naturale.

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Che cos’è la musica?

Che cos’è la Musica? Una risposta potrebbe essere… 42!
Proprio come nel libro “Guida galattica per autostoppisti” di Douglas Adams, dove l’unico modo per rispondere alla “domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto” è attraverso il surreale, il nonsense, il paradosso.

“Questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda.”

Uno sberleffo di trascendenza che va oltre la domanda con ironia, l’unica possibile risposta ad una domanda che “una” risposta non la può avere.

Musicologica è un punto di partenza dopo sette milioni e mezzo di “pensieri profondi”. Amo la musica da sempre. Mi ha affascinato per il suo essere impalpabile, invisibile, eppure così presente come ossigeno nell’aria da non poterne fare a meno. Perché? Lo dovevo capire. E così dopo aver divorato dischi e riviste ho cercato la risposta nella dotta Università di Padova, prima con la laurea triennale in Discipline dell’Arte della Musica e dello Spettacolo e poi con la specialistica in Musicologia e Beni Musicali.
Alla prima lezione del primo corso è stato presentato uno dei testi d’esame: “Che cos’è la musica?” di Carl Dahlaus e Hans Heinrich Eggebrecht. Ero nel posto giusto! Il primo passo verso un mondo che racchiude infiniti universi al suo interno. Uno dei miei libri preferiti.

Che cos’è la Musica? La classica risposta è “la colonna sonora della vita” e poi ossigeno, condivisione, divertimento, svago, compagna di viaggio… Per alcuni la Musica è un lavoro, per altri un linguaggio per costruire nuovi mondi, molti invece a questa domanda non hanno mai pensato.

Una definizione in senso stretto non esiste, perché non esiste “la” musica. È un concetto che anche solo storicamente nella tradizione culturale occidentale è cambiato spesso dall’antichità ai giorni nostri. Pitagora associava la musica a rapporti numerici in cui si manifestava l’armonia dell’universo, per Sant’Agostino era una “scientia bene mondulandi” mentre all’inizio dell’età moderna la pratica musicale rimandava alla sfera delle emozioni; passando per il razionalismo del Settecento e l’irrazionalismo Romantico si arriva alla concezione moderna di linguaggio che dà forma a pensieri musicali.

“La musica non dovrebbe essere solo un idromassaggio per il corpo, uno psicogramma sonoro, un percorso mentale in suoni, ma soprattutto flusso diventato suono della ipercosciente elettricità cosmica”

Karlheinz Stockhausen

Ecco il perché di Musicologica (musica + logica) per cercare di incuriosire, porre le giuste domande e andare alla scoperta della Musica nella sua essenza. Parlare di musica è parlare della società di oggi, del suo rapporto imprescindibile con il pubblico e della loro evoluzione nella storia. Parlare di Musica è parlare di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso. È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di ascoltare, osservare, imparare: audio, video, disco.

“Parlare di musica è come ballare di architettura” diceva Frank Zappa.
E allora si dia inizio alle danze!