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La funzione educativa ed etica della musica

In un precedente articolo vi ho parlato di quando nel 1865 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis aveva tristemente dichiarato che la musica non andava insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni».

Sono passati 155 anni, la scuola è molto diversa da allora, alcune materie si sono attivate, ma nella nostra società certi pregiudizi non sono molto cambiati. Guardo al passato (Bernardo di Chartres diceva: «siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane») e torno nella Grecia di Platone e Aristotele.

Platone in vari suoi dialoghi toccò temi riguardanti la musica affidandole un valore educativo in quanto arte legata all’armonia dell’universo, idea di chiara derivazione pitagorica (ne ho parlato qui). Nella “Repubblica” e nelle “Leggi” Platone sostiene l’importanza della musica in quanto modello di organizzazione nel processo educativo del cittadino: il consenso della comunità cittadina nell’uniformarsi spontaneamente alle leggi dello Stato si basa sulla possibilità di persuaderne i singoli membri attraverso un sistema educativo sostanzialmente coreutico-musicale.

Platone esortò i tutori del suo stato ideale, fondato sulla giustizia, ad assegnare alla musica un ruolo fondamentale nell’educazione dei giovani: la musica doveva servire ad arricchire l’animo, così come la ginnastica educava il corpo. La pratica musicale doveva essere resa obbligatoria, ed in effetti la musica divenne materia di studio.

Chi possiede una sufficiente educazione musicale può accorgersi con grande acutezza di ciò che è brutto o imperfetto nelle opere d’arte o in natura, mentre sa approvare e accogliere con gioia nel suo animo ciò che è bello, e nutrirsene e diventare un uomo onesto.

Platone, “Repubblica” (401d-402a)

Nel “Simposio” Platone tratta della correlazione fra la pratica della musica (ritmo e melodia) e l’indole umana (ethos), intesa come risultato di educazione. Questa duplice validità della musica, aspetto edonistico (passeggera distrazione) e aspetto intellettuale (oggetto di ragione e studio legata alle divine proporzioni, come inteso dai pitagorici), rimarrà per tutto il Medioevo ed oltre.

Per i pensatori ellenici la musica, per il suo essere legata all’armonia delle sfere, influiva anche sull’animo umano, sia positivamente che negativamente, arrivando anche potenzialmente a poter turbare le leggi e le istituzioni dello Stato se affidata a persone non virtuose. Il musicista era quindi tenuto a rappresentare i valori positivi per la comunità, come il coraggio, virtù tipicamente maschile, o la temperanza, suo corrispettivo femminile.

Platone nella “Repubblica” spiega anche come ogni armonia (scala musicale) possieda un “ethos” specifico, ovvero una particolare capacità di influire sulla psiche e sul corpo. Ad esempio, la scala Dorica, grave e virile, poteva suscitare nell’animo compostezza e determinazione; la Frigia era capace di persuadere, calmare e portare pace.

Rafaello Sanzio, “Scuola di Atene” (1509-1511 circa)


Aristotele amplia e approfondisce ulteriormente il pensiero di Platone. L’estetica musicale ha un posto di rilievo anche nelle sue opere, come nella “Politica” di cui gli ultimi cinque capitoli dell’ottavo libro costituiscono un vero trattato sull’uso della musica nell’educazione, con un’importante puntualizzazione al suo rilievo sociale e pedagogico.

La musica non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per la ricreazione, il sollievo e il riposo dallo sforzo.

Aristotele, “Politica”

Il pensiero di Platone mirava a fornire allo Stato gli strumenti per selezionare le musiche più funzionali a rafforzare le tradizioni e i valori della comunità; Aristotele ritiene utile utilizzare ogni genere di musica conosciuta riconoscendole quattro funzioni: non solo educazione (paideia), ma anche divertimento (paidia), nobile ricreazione intellettuale (diagoge) e in particolare Aristotele attribuisce alla musica qualità terapeutiche capaci di purificare l’anima dalle emozioni pericolose ed eccessive (katharsis).

“La musica è una rivelazione più profonda di ogni saggezza e filosofia”

Ludwig Van Beethoven
logica musica

Pitagora: la musica, la matematica e l’Armonia delle Sfere

Pitagora lo conosciamo tutti. È uno di quei personaggi importanti che si studiano a scuola e per un motivo o per l’altro non si scordano più. È stato un pensatore, matematico, filosofo vissuto nel VI secolo a. C., nato a Samo venne in Italia e fondò la sua scuola a Crotone. Lo ricordiamo soprattutto per il suo famosissimo teorema, rispolveriamo la memoria: in ogni triangolo rettangolo l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti.

Quello che forse viene poco raccontato è quanto le scoperte di Pitagora siano state fondamentali anche in campo musicale. La filosofia pitagorica concepì la musica come elemento che, assieme alla matematica, coinvolge tutto l’Universo. Il concetto di Musica come scienza della ragione e come qualcosa di immutabile è una scoperta da cui prenderà vita, nei secoli successivi, quella che chiamiamo la civiltà musicale occidentale.

Narra la leggenda che tutto cominciò circa 2.500 anni fa nella bottega di un fabbro. Si racconta che Pitagora, durante le sue passeggiate, vi passasse spesso accanto; un giorno prestò particolare attenzione ai diversi suoni squillanti prodotti dai martelli sulle incudini e si domandò come mai alcuni fossero così piacevoli, armoniosi, se accostati tra di loro. Entrò e capì che responsabili dei diversi suoni prodotti erano i diversi pesi dei martelli.

immagine da: Gaffurio “Theorica Musicae” 1492

Pitagora ripeté l’esperimento su un monocordo, strumento composto da una sola corda tesa sopra una cassa di risonanza. Pizzicando la corda si ottiene un determinato suono, Pitagora scoprì che dimezzando corda e pizzicandone la parte dimezzata si ottiene un altro suono che ben si lega con il primo: è lo stesso suono, ma di un’altezza diversa. Pitagora ha scoperto così che con un rapporto di numeri, in questo caso 2:1, si può descrivere un rapporto armonico musicale che oggi chiamiamo intervallo di ottava (è la distanza, ad esempio, tra un Do e il Do successivo).

Pitagora è andato oltre: ha diviso la corda in 3 parti e ha scoperto un altro suono armonico molto importante, l’intervallo di quinta, che è in rapporto di 3:2 (es. distanza tra Do e Sol). Dividendo ancora la corda 4 parti e pizzicandola in un rapporto di 4:3 otteniamo un intervallo di quarta (ad esempio tra Do e Fa)

Utopia Razionale: Pitagora e Mondrian, conferenza tenuta all ...

Pitagora quindi scoprì che i primi quattro numeri interi (1, 2, 3, 4) creano tra di loro rapporti fondamentali e interessanti, trovò le forme universali della consonanza: 2:1 (ottava); 3:2 (quinta); 4:3 (quarta). Oggi sappiamo che questi rapporti tra le note corrispondono alle frequenze, a quell’epoca non si poteva sapere.  Pitagora scoprì i suoni della scala diatonica e molti degli intervalli che ancora oggi governano le regole dell’acustica musicale occidentale.

Inoltre, se sommiamo proprio questi primi quattro numeri (1 + 2 + 3 + 4) otteniamo come risultato 10, il numero “magico” dei Pitagorici che si può rendere graficamente con un oggetto matematico chiamato Tetraktys.

Un oggetto incredibilmente semplice e altrettanto incredibile, venerato dai Pitagorici. Perfetta ed esemplare riduzione del numerico allo spaziale e dell’aritmetico al geometrico. La Tetraktys simboleggiava la perfezione del numero e degli elementi che lo comprendono, era il paradigma numerico della totalità dell’Universo.


L’armonia delle sfere

Profondamente colpito da questo legame tra musica e numeri, Pitagora trasse la conclusione che “il numero è sostanza di tutte le cose” e che quindi tutto fosse misurabile e si potesse descrivere in maniera razionale con numeri interi.

Si poteva così spiegare il moto degli astri, il succedersi delle stagioni, i cicli delle vegetazioni e le armonie musicali. La grande importanza dei Pitagorici è che per primi hanno ricondotto la natura all’ordine misurabile e hanno riconosciuto in quest’ordine ciò che dà al mondo la sua unità, la sua armonia e quindi anche la sua bellezza.

I Pitagorici, scrive Aristotele, vedendo che molte delle proprietà dei numeri appartengono ai corpi sensibili, stabilirono che gli esseri sono numeri, non numeri separati, ma quelli di cui consistono. E perché? Perché le proprietà che appartengono ai numeri risiedono nell’armonia, nel cielo e in molte altre cose.

(Met., XIV, 3, 1090 a 21 sgg.)

Pitagora e i suoi seguaci teorizzarono l’idea di un Universo governato da proporzioni numeriche armoniose che determinavano il movimento dei corpi celesti e le distanze tra i pianeti corrispondevano ai rapporti numerici degli intervalli musicali.

La rotazione dei pianeti nello spazio venne associata ad una sinfonia musicale chiamata “Armonia delle Sfere”: una musica celestiale, bellissima, che le nostre orecchie non riescono più a percepire perché da sempre abituate a sentirla. Un po’ come quando si sta a lungo accanto ad un fiume e ci si abitua al fragore delle acque.

Tutto quanto si svolge nel cielo e sulla terra è sottomesso a leggi musicali.

Cassiodoro (VI sec.)

Di origine pitagorica sono anche le tradizionali associazioni delle sfere planetarie alle sette corde della lira e dei sette pianeti ai sette suoni formati da due tetracordi (due scale composte da 4 suoni) che si uniscono tra loro e coincidono in una nota comune, in origine la corda centrale sulla quale si regolava l’accordatura. A questa nota centrale i pitagorici identificarono Apollo, il dio dell’armonia cosmica, e il Sole al quale, data la sua posizione mediana nell’ordine che si dava all’epoca alle sfere celesti, si attribuiva un’azione di vincolo e di coesione tra i restanti pianeti.

Le proporzioni dell’universo armonicamente riferite al monocordo in un’opera di Robert Fludd (1574-1637)

La rappresentazione pitagorica dell’universo come armonia ebbe molto successo nell’antichità, ne parlarono Platone, Aristotele, Claudio Tolomeo, Cicerone. Fino ad arrivare a Boezio (sec. V-VI d.C.) e alla sua famosa tripartizione della musica:
musica mundana (armonia delle sfere, macrocosmo);
musica humana (armonia interiore, musica dell’anima, microcosmo);
musica instrumentalis (musica strumentale, nel senso che noi comprendiamo oggi). 

A Boezio si deve anche la codificazione delle Arti Liberali che nel Medioevo costituivano i due gradi dell’insegnamento, l’uno letterario (Trivium) e l’altro scientifico (Quadrivium), e ovviamente la Musica era tra le materie fondamentali della sfera scientifica:
Trivium: grammatica, retorica, dialettica;
Quadrivium: aritmetica, geometria, musica, astronomia.

Anche Dante ne parlò esplicitamente in diversi punti della “Divina Commedia” e nel “Convivio” dove, ribadita l’intima corrispondenza tra i primi sette cieli e le dottrine del Trivium e del Quadrivium, alla Musica è assegnato il cielo di Marte. Per il Sommo Poeta è la relazione più bella dei cieli: essendo complessivamente nove, alla Musica è assegnato il quinto posto, quello più importante e centrale.

E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì e l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono.

Dante, Convivio (tratt. 2.13)

Dante Alighieri e Beatrice contemplano l’Empireo
(illustrazione di Gustave Doré)
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La musica sventola Bandiera Gialla

La musica è in quarantena. Stiamo vivendo questo marzo 2020 che passerà alla storia come uno dei periodi più oscuri per la musica e lo spettacolo: tutto chiuso, rinviato a data da destinarsi.

La musica sventola bandiera gialla, come accadeva nei secoli scorsi al tempo del colera: se in un’imbarcazione c’erano dei malati in quarantena si issava una bandiera gialla per dichiarare lo stato di emergenza. Alla larga: appestati a bordo!

Negli anni ’60 pensare al vascello Musica che sventola bandiera gialla non era un paragone così triste come oggi e ha dato lo spunto creativo ad un programma rivoluzionario per giovani che ascoltavano musica da “appestati”. A due grandi nomi della televisione italiana venne un’idea geniale: una trasmissione radiofonica interamente dedicata ai generi musicali di tendenza per le nuove generazioni, all’epoca vietati dalla RAI e dalle trasmissioni nazionali. Erano Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, il programma andò in onda per la prima volta il 16 ottobre 1965 su Rai Radio 2, si chiamava “Bandiera Gialla” e iniziò con questo annuncio:

“A tutti i maggiori degli anni 18, a tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi, ripeto, ai giovanissimi, tutti gli altri sono pregati quindi di spegnere la radio o sintonizzarsi su altra stazione…”.

E poi si alzò il volume del primo brano andato in onda: “T-Bird” di Rocky Roberts. È stato un successo immediato. Uno spazio per “malati di musica” non adatto agli adulti. Una rivoluzione culturale. Ogni settimana venivano proposte 12 novità musicali straniere, soprattutto inglesi ed americane, ma anche nuovi artisti italiani che stavano iniziando a spopolare, era il fenomeno “beat”. Le canzoni venivano votate dal pubblico di ragazzi, presenti e protagonisti alla diretta in studio, e il vincitore era proclamato “disco giallo”.

Rocky Roberts – “T-Bird” (video del 1974)


«Fino al 1965, anno in cui l’Italia riceve il boom che c’era già stato altrove, i giovani semplicemente non esistevano – spiega in questa intervista Roberto D’Agostino che in Bandiera Gialla ha esordito come disk jockey – Impensabile che avessero propri gusti, per giunta in ambito musicale. C’era il bimbo che, ascoltando le canzonette in compagnia dei genitori, aspettava di crescere imitando la madre o il padre. Negli indici di gradimento d’ascolto Rai, lo ricorda Arbore, i diciottenni non erano contemplati. Il loro parere non interessava a nessuno».

Solo in un anno i dischi trasmessi furono 672. “Bandiera Gialla” fu un fenomeno culturale e di costume: i ragazzi per la prima volta si sentivano protagonisti, considerati e non più esclusi dalle normali programmazioni: stava nascendo una nuova categoria sociale. Un programma che ha rivoluzionato anche la produzione e il mercato discografico: era un potente canale di promozione e favorì la pubblicazione e la distribuzione di queste musiche anche in Italia contribuendo ad un aumento di vendite dell’80%.

Oggi come allora, siamo noi Bandiera Gialla!

Gianni Pettenati – “Bandiera Gialla” (1967)
musica

La musica non fa valentuomini, ma buffoni

Se vi dicessi che il Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che la musica non va insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni» mi credereste?

È tutto vero. Siamo nel 1865 e Francesco De Sanctis, Ministro dell’Istruzione nel 1861, consigliò al suo successore Giuseppe Natoli dalle colonne del giornale “L’Italia” di non insegnare alcune materie ritenute superflue e ne elencava alcune tra cui il Francese, la ginnastica e “il ballo” ad indicare con spregio la Musica.

Tutta questa roba, non bisogna, non si può digerire, non fa valentuomini, ma buffoni. Quello che i giovanetti debbono saper bene è la loro lingua, scriverla correttamente, esprimere i loro pensieri con ordine e semplicità; poi saper la storia e la geografia, l’aritmetica, la geometria e principi di algebra. […] Il neces­sario per i giovanetti non sono le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto, di fermarsi su le cose, di considerarle per ogni verso. Acquistato quest’abito, acquistato il giudizio, si vola poi sopra tutto il sapere, si comprende facilmente, si legano insieme le cognizioni che si vengono acquistando.

Il testo fu ripubblicato nel libro di Francesco De Sanctis “L’istruzione media. Omaggio alla casa editrice Laterza nel X Congresso della Federazione Nazionale fra gl’insegnanti delle Scuole Medie” (Laterza, 1919). Per De Sanctis, gli alunni non devono acquisire «le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto»: la musica e le discipline artistiche in generale, secondo il letterato, non si confanno a tale scopo. O meglio, leggendo per intero l’articolo, il senso del discorso di De Sanctis era che per voler insegnare troppo, si rischia di finire per non insegnare nulla.

Sono passati 155 anni, alcune materie si sono attivate, ma certi pregiudizi non sono molto cambiati. Fare il musicista non viene considerato come un mestiere, ma un hobby, un passatempo, un capriccio, una sorta di moderno giullare alla mercé delle corti televisive. La Musica non è arte: è un sottofondo sonoro delle nostre giornate, la colonna sonora di viaggi in auto, qualcosa da canticchiare sotto la doccia.

In realtà lo sappiamo che la Musica è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero addirittura essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse la colpa è di alcuni buffoni che riempiono le pagine dei giornali e dei programmi televisivi che si nutrono di scandali e gossip, aumenta lo share e aumenta il fatturato.

Dovrebbe cambiare il modo di approcciarsi alla Musica cercando di capirla per il suo valore: da un ascolto passivo passare ad un ascolto attivo. Il significato della Musica non sta solo negli oggetti musicali, ma in ciò che la gente fa con la musica: come la sia ascolta, come la si suona e perché. Studiare la Musica non è solo studiare la storia delle opere e dei grandi nomi: è la storia degli uomini che hanno fatto, ascoltato e parlato di musica.

Parlare di musica è parlare della società di ieri e di oggi. Parlare di Musica è parlare di storia, di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Ma anche di matematica, geometria, scienza, filosofia, psicologica, medicina… Ci si potrebbe basare un intero programma scolastico!

È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di
ascoltare (audio)
osservare (video)
imparare (disco).

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Il giorno in cui la musica morì

“Bye, bye Miss American Pie, drove my Chevy to the levee but the levee was dry…” se la canticchiamo molto probabilmente è grazie alla cover che ne fece Madonna nel 2000. La sua “American Pie” è stata un successo, colonna sonora del film di John Schlesinger “Sai che c’è di nuovo?” (The Next Best Thing) dove recitava come protagonista insieme a Rupert Everett.

Nell’iconico videoclip Madonna in jeans patchwork, canotta e coroncina da reginetta, balla il mito americano. Alle sue spalle un’enorme bandiera degli Stati Uniti e una carrellata di simboli ed immagini che celebrano il suo Paese.

Madonna – “American Pie” (2000)


La storia di “American Pie” inizia il 3 febbraio 1959, il giorno in cui tre vere e proprie icone del Rock’n’Roll persero la vita in un terribile incidente aereo. Erano Buddy Holly, J. P. “The Big Bopper” Richardson e Ritchie Valens (rispettivamente di 22, 28 e 17 anni) insieme al pilota Roger Peterson, solo ventunenne e purtroppo inesperto.

Viaggiavano insieme per il tour “White Dance Party” che prevedeva 24 concerti in 24 città diverse tra il 23 gennaio e il 15 febbraio. Gli spostamenti erano lunghi, snervanti, il tour non era stato organizzato nel migliore dei modi. Viaggiavano su un pullman scassato che si rompeva spesso costringendoli a lunghe attese per le riparazioni, al gelo sul ciglio della strada.

Il 2 febbraio erano a Clear Lake in Iowa, il giorno dopo avevano un concerto in Minnesota e quello successivo sarebbero dovuti tornare a suonare in Iowa. Buddy Holly non ce la faceva più, decise di noleggiare un piccolo aereo per rendere più veloce e semplice quell’ennesimo spostamento. Qui entra in gioco il destino: non ci stavano tutti, chi sale sull’aereo e chi sul pullman? Le versioni non coincidono: c’è chi racconta che Richardson chiese di poter salire in aereo perché malato e che Valens vinse il posto a testa e croce con il chitarrista di Buddy Holly, altri dicono che fosse già tutto deciso così. Nevicava, la visibilità era molto bassa, il pilota era inesperto e non era stato ben informato delle condizioni meteo. Il piccolo aereo precipitò quasi subito, lo trovarono a pochi chilometri dal punto della partenza.


La notizia causò un grande shock negli Stati Uniti, anche se giovanissimi i tre erano già delle star del Rock’n’Roll. Buddy Holly era in televisione da quando aveva 16 anni, aveva aperto i concerti di Elvis Presley, i suoi occhiali con la montatura spessa erano (e sono ancora) un’icona e con la sua Fender Stratocaster aveva inventato uno stile che prima non c’era, la sua hit più famosa: “Peggy Sue”. Ritchie Valens era il più giovane, il suo stile mescolava il Rock’n’Roll con la musica Latina, sua è una delle canzoni più famose degli anni ’50 “La Bamba”. E poi c’era Richardson, texano come Buddy Holly, che aveva sbancato con la sua “Chantilly Lace”.

Questo triste incidente in America è ricordato come “Il giorno in cui la musica morì”, espressione presa da un verso (The day the music died) della celebre canzone “American Pie” di Don McLean uscita molto più tardi, nel 1971. Nel 1959 McLean aveva 13 anni e si guadagnava qualche soldo consegnando i giornali e la notizia la apprese proprio così: campeggiava su tutte le prime pagine di quelle pile di giornali da consegnare.

Don McLean – “American Pie” (copertina)

Quell’incidente fu una vera e propria tragedia mai dimenticata per il ragazzino Don McLean che si tradusse in musica molti anni dopo. “American Pie” fu pubblicata nel 1971 nell’omonimo album e nel retro copertina si legge la scritta “Dedicated to Buddy Holly”. Dura 8 minuti e mezzo e raggiunse la prima posizione nelle classifiche Billboard Hot 100 per quattro settimane diventando una pietra miliare della musica leggera americana.

Volvevo scrivere una grande canzone sull’America e sulla politica, ma volevo farlo in un modo diverso. Mentre stavo suonando, ho iniziato a cantare qualcosa sull’incidente di Buddy Holly, che faceva così: “Long, long time ago, I can still remember how that music used to make me smile” (Molto, molto tempo fa, riesco ancora a ricordare come quella musica mi faceva sorridere). Ho pensato “Wow!” e poi “The day the music died” è venuta così, di conseguenza e ho pensato fosse una bella idea.

Don McLean

Il testo della canzone è molto lungo e negli anni è stato interpretato in molti e diversi modi. “American Pie” prende quel terribile incidente come metafora della perdita dell’innocenza della generazione che aveva assistito alla nascita del Rock’n’Roll negli anni ’50 e si avviava verso periodi più oscuri sia nella musica sia nella politica.

Una spiegazione l’ha poi data Don McLean nel suo sito web: «Sono molto orgoglioso della canzone. È di natura biografica e non credo che nessuno l’abbia mai capito. La canzone inizia con i miei ricordi della morte di Buddy Holly, ma continua a descrivendo l’America mentre la vedevo e come stavo immaginando che potesse diventare. Quindi è in parte realtà e in parte fantasia, come quando sogni qualcosa che cambia in qualcos’altro ed è illogico quando ci ripensi al mattino, ma quando stai sognando sembra perfettamente logico. (…) Ecco perché non ho mai analizzato i testi delle canzoni. Sono al di là dell’analisi. Sono poesie».


Tanto tanto tempo fa / Ricordo come quella musica mi facesse sorridere 
E sapevo che se avessi avuto la mia occasione / Avrei fatto ballare quella gente 
E forse sarebbero stati felici per un po’.
Ma febbraio mi faceva venire i brividi / Ogni volta che consegnavo i giornali  
Lasciavo brutte notizie davanti alla porta / Non potevo andare avanti così.
Non ricordo se ho pianto / Quando ho letto della sua sposa rimasta vedova  
Ma qualcosa mi ha toccato nel profondo / Il giorno in cui la musica morì.


Grazie al successo ottenuto con “American Pie” Don McLean divenne famoso molto velocemente e questo lo porterà a vivere anche un periodo di depressione. “American Pie” è un successo ancora oggi e sono stati moltissimi negli anni i musicisti che si sono cimentati in cover ed interpretazioni, tra cui la famosissima versione di Madonna che così commenta McLean:

«Madonna è un colosso dell’industria musicale e sarà anche un’importante figura nella storia della musica. È una brava cantante, una brava cantautrice e produttrice discografica, e ha il potere di garantire il successo a qualsiasi canzone che sceglie di registrare. È un regalo per lei aver registrato “American Pie”. Ho sentito la sua versione e penso che sia sensuale e mistica. Penso che abbia scelto di cantare i versi per lei più autobiografici che riflettono la sua carriera e la sua storia personale. Spero che la gente si chieda cosa sta succedendo alla musica in America. Ho ricevuto molti doni da Dio, ma questa è la prima volta che ricevo un dono da una dea» .

Don McLean – “American Pie” (live alla BBC, 1972)
musica

Perché hanno inventato Sanremo?

Non c’è bisogno di presentazioni “Perché Sanremo è Sanremo” recitava un vecchio jingle pubblicitario. È “il” festival per eccellenza, il momento in cui gli italiani da esperti di politica e allenatori di calcio diventano critici musicali. Durante la settimana di Sanremo tutto ruota intorno a Sanremo: polemiche, provocazioni, vallette, abiti e la musica è quasi un sottofondo. Tutto nella norma, perché scandalizzarsi ogni anno?

Sanremo è “lo specchio della nazione” ed è spesso oggetto di studio non tanto come fenomeno musicale, ma come fenomeno di costume e “specchio” di qualcos’altro. Raccontando i suoi 70 anni di vita si potrebbe raccontare l’Italia perché Sanremo è l’emblema della società italiana; la storia della Musica non è solo la storia delle opere, delle canzoni e dei grandi nomi: è la storia delle persone che hanno fatto, ascoltato e parlato di Musica.


Perché Sanremo è Sanremo?

Lo spiega molto bene Jacopo Tomatis nel suo libro “Storia culturale della canzone italiana” in cui racconta:

La canzone italiana così come la conosciamo – la sua “invenzione” – avviene nel corso di processi culturali più complessi, di cui Sanremo rappresenta uno dei più significativi snodi simbolici e dei quali la Rai e l’editoria musicale sono i principali attori.

Spesso si dimentica il sottotitolo del Festivàl e molte polemiche sono legate all’esclusione di determinati generi e alla “classicità” delle canzoni in gara, ma Sanremo è il festival della canzone italiana, anzi ha avuto un ruolo determinante nella costruzione dell’idea di canzone italiana che ci è familiare oggi.


Il primo articolo che il Radiocorriere ha dedicato a Sanremo nel 1951 alle porte della prima edizione lo descriveva proprio come un’iniziativa volta a valorizzare la canzone italiana «il cui intento principale è quello di promuovere un elevamento nel campo della musica leggera italiana, compatibilmente con i presupposti “popolari” propri del genere in se stesso. (…) Con una serie di iniziative, la Rai cerca appunto di promuovere la rinascita di uno spirito veramente attivo nella canzone italiana e l’acquisizione di una individualità spiccata, indirizzando in tal senso gli autori e gli editori musicali».

Il senso della manifestazione, come è noto, è quello di valorizzare ed elevare qualitativamente le espressioni della musica leggera del nostro paese.

Nunzio Filogamo, presentazione della seconda edizione del Festival di Sanremo, 1952

Quando nacque l’idea del Festival, Sanremo era mal ridotta: il teatro comunale era stato distrutto dalle bombe e c’era la voglia di tornare un’importante meta turistica iniziando con l’incrementare le visite nella stagione invernale. Siamo nel momento della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, il momento in cui il popolo doveva ritrovare gli ideali e il senso di patria che si era smarrito: aveva bisogno di una canzone che esprimesse tutto questo.

In quegli anni esisteva solo la radio, era la protagonista, e le canzoni diffuse divennero il simbolo della nostra società. Un senso di italianità che fonda le radici nei canti napoletani, nelle romanze ed è legata a filo doppio al “bel canto” della tradizione lirica.


Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone

A riprova di come Sanremo nasca in un contesto di ripensamento generale delle politiche culturali della Rai, Jacopo Tomatis trova molti riferimenti in articoli di giornale e nelle rubriche radiofoniche dell’epoca in cui si parla molto spesso della volontà di valorizzare la musica leggera andando a recuperarne i suoi caratteri originari. Tutti indizi che suggeriscono come «il Festival nasca nel quadro di un progetto ben orchestrato da parte della Rai».

La nascita e il successo di una manifestazione come questa era un modo per la Rai di soddisfare la propria domanda di canzoni e rinforzare il controllo non solo sull’offerta, ma anche nei contenuti e nello stile.

La Rai era la maggior committente di musica leggera in Italia e per questo motivo il principale interlocutore dell’editoria musicale. Prima della Guerra l’Eiar (l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) non aveva un numero di adeguato di canzoni per la messa in onda e nel 1956 il problema era l’opposto: in Italia la produzione di canzoni era troppo abbondante, il successo di Sanremo aveva reso necessaria l’attivazione di concorsi per la selezione dei brani.

Il direttore del Casinò di Sanremo, Pier Bussetti, su domanda di Mario De Luigi nel 1953 sul successo delle prime edizioni commenterà alla stampa: «Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone».

Grazie alla crescente domanda del pubblico nasceranno nuovi festival e concorsi; la stampa popolare inizierà ad occuparsi dei nuovi divi della musica leggera e “Sorrisi e canzoni” (al tempo “Sorrisi e canzoni d’Italia”) nel 1952 si aggiudica l’esclusiva sulla pubblicazione dei testi delle canzoni di Sanremo e insieme ad articoli di costume, gossip di star e jet-set, diventerà una delle riviste di maggior successo. Scrive Tomatis:

I mercati e le reti nazionali creati dai mass media in questi anni contribuiscono alla creazione di una “società italiana” quale comunità geografica percepita, diffondendo immagini (e, naturalmente, suoni) da tutta la nazione.

Come spesso dicono “l’Italia è una Repubblica fondata su Sanremo” e il resto è storia.

musica

Lo streaming musicale? Esisteva già nel 1906


Benvenuti nel futuro! Era impensabile una quindicina di anni fa: una startup innovativa, più che una promessa una speranza, oggi è diventata il segmento del music business che è riuscito a riportare in positivo i bilanci della discografia. È lo streaming!

La cosiddetta “musica liquida” secondo l’Ifpi nel 2018 ha smosso un giro d’affari da 8,9 miliardi di dollari, il 34% in più rispetto all’anno precedente. Impressionante per qualcosa che nel 2004 non esisteva. Leader indiscusso è Spotify, nel primo trimestre 2019 ha toccato quota 100 milioni di utenti a pagamento con una quota di mercato del 36%, seguita da Apple Music con 56 milioni di iscritti; a seguire Amazon Music, Youtube Music, Deezer e altri ne stanno nascendo.

Tutta la musica che vuoi ascoltare a portata di un click dal tuo telefono, sarà anche “smart” ma tecnicamente è pur sempre un telefono. Tuttavia non è la prima volta che nel corso della storia si è pensato di trasmettere della musica attraverso una linea telefonica, cento anni fa esisteva già un servizio di streaming musicale telefonico: il Telharmonium.

New York Times, dicembre 1906


Il Telharmonium fu il primo strumento musicale elettronico della storia. Inventato da Thaddeus Cahill intorno al 1897 era una macchina gigantesca grande come un vagone ferroviario, pesava 200 tonnellate e può essere considerato l’antenato dell’organo elettromeccanico Hammond. Era composto da 145 dinamo accoppiate ad induttori per la produzione di correnti alternate capaci di variare la frequenza. Le frequenze erano controllate da alcune tastiere sensibili alla pressione delle dita, proprio come un pianoforte, capaci di combinare insieme le diverse frequenze e creare effetti sonori che imitavano gli strumenti dell’orchestra.

La seconda idea geniale di Cahill fu quella di creare un impianto di filodiffusione e pensò ad un sistema di trasmissione della musica attraverso la normale linea telefonica. Da qui la nascita del nome tele-harmonium, un mezzo di trasmissione del suono, una sorta di Spotify Vittoriano. Il Telharmonium sembra quasi una macchina uscita dall’universo Steampunk, il movimento artistico culturale che gioca con anacronismi e tecnologie, immaginando “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima” con città di automobili a vapore e computer meccanici con tastiere in ottone e cuoio.

Immagine tratta dalla copertina di “Scientific American” 9 marzo 1907

Il Telharmonium fu installato e iniziò a funzionare nel 1906 a Broadway, New York: gli ascoltatori chiamavano un centralino che li metteva in contatto con una sorta di stazione radio telefonica, chiedevano all’operatore di potersi connettere e la musica usciva magicamente dalla cornetta del telefono; la cornetta poteva essere avvicinata ad un grande imbuto per amplificarne il volume (l’amplificatore elettrico non era ancora stato inventato).

Il sistema fu adottato da molti hotel, bar, ristoranti e attirò anche l’attenzione dello scrittore Mark Twain che si recò di persona a vedere da dove uscisse quella melodia:

Ogni volta che vedo o ascolto di una nuova meraviglia come questa devo rimandare subito la mia morte. Non posso lasciare questo mondo fin quando non ne avrò sentite ancora e ancora.

Mark Twain

Fu un’iniziativa che dimostrò già allora una particolare attenzione per la diffusione di massa della musica, anche se le opere trasmesse erano di compositori come Bach, Mozart, Chopin, Grieg e Rossini. Il progetto però non durò molto e il Telharmonium fu dismesso nel 1916 per motivi di natura tecnica (il sistema telefonico non reggeva il forte sovraccarico di informazioni creando problemi al servizio) e il gigantesco macchinario nel 1920 fu rimosso dall’appartamento della 39st & Broadway di New York. La fine del Telharmonium coincise con l’avvento di uno dei mezzi di comunicazione di massa più diffusi: il sistema radiofonico.


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musica

Prima di Young Signorino e Junior Cally c’erano i Beatles

Cinture ben allacciate, ci lanciamo in un salto (nel vuoto) temporale un po’ azzardato: dal 1968 con “O-bla-di o-bla-da life goes on brahhh” dei Beatles al 2019 con “Alfa-Alfa-Alfabeto rappapappapappapà” di Young Signorino. È un paragone così blasfemo? Forse sì, ma c’è sempre un senso “anche se un senso non ce l’ha”, citando Vasco che nel senso del non senso cade in piedi.

La Musica non è sempre abbinata alle parole, pensiamo semplicemente a tutta la Classica sinfonica, ma la musica Leggera vede nella canzone la sua forma musicale più diffusa. Un’unione di musica e parole nel classico susseguirsi di strofa e ritornello, con eventuali aggiunte come incisi, assoli, bridge, intro e outro. Un connubio estremamente efficace sul piano comunicativo, che rende possibile la trasmissione di significati in maniera semplice e diretta.

Un momento cardine per l’evoluzione della canzone è avvenuto tra gli anni ’50 e ’60, quando non viene più vissuta solo come un evento musicale, ma comincia a diventare un fenomeno culturale di massa: in un concentrato di 3 minuti di parole e musica vengono racchiusi ideali, ansie ed emozioni di una generazione. Per la prima volta i giovani iniziarono ad affidare alle canzoni i loro messaggi. La svolta maggiore arrivò con il Rock’n’Roll. Ritmi scatenati, movenze provocanti, dissacranti, provocatorie e modalità espressive come urla, gemiti e sospiri. Il Rock riporta la musica alla sua parte più ancestrale e primitiva, reintroducendo l’elemento dionisiaco che la tradizione occidentale aveva represso e inibito.

Tutto questo in linea col quel periodo storico così ricco di cambiamenti e passioni. Sono canzoni dirette, senza mezze misure, esempio di quell’irrefrenabile voglia di gridare la propria libertà: un parallelo in musica di quell’epocale cambiamento generazione in atto. Partendo banalmente da Chuck Berry, Elvis, Beatles, Rolling Stones, ai Doors, Led Zeppelin, The Who con “My generation”… Un elenco lunghissimo che andrebbe a raccontare la storia del Rock.

Tra gli outsiders voglio ricordare “Je t’aime… moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, una apparente dolce ballata sussurrata, ma dal testo che poco lascia all’immaginazione e che provocò uno spropositato scandalo nell’estate del 1969.

Serge Gainsbourg e Jane Birkin – “Je t’aime… moi non plus” (1969)


Un altro passo nell’evoluzione della canzone: il confine tra “cantato” e “parlato” divenne sempre più labile e da oltreoceano arrivò anche in Italia. Un’Italia anni ’60 aperta ai momenti trasgressivi dell’avanspettacolo e alla satira da cabaret. Ecco che troviamo Fred Buscaglione con “Eri piccola così” e Paolo Conte con “Vieni via con me”: due canzoni che reggono tutte sull’interpretazione di due simpatiche canaglie dall’espressività unica. Intonazione e inflessione del suono uniche, come per Lucio Dalla che nelle sue improvvisazioni ritmico-melodiche ha creato uno stile indistinguibile che scandisce nelle sue canzoni i momenti di maggior coinvolgimento emotivo.

Restando nel giocoso non si può non citare “Supercalifragilistichespiralidoso” dell’iconica Mary Poppins, e per tornare al pop italiano “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano, una delle stramberie del Molleggiato (difficilissimo scioglilingua che giocava sull’assonanza con la lingua inglese), un “rap ante litteram” come affermerà poi Celentano nel 1994. Tra il parlato e il giocoso troviamo anche l’intramontabile Mina con, ad esempio, “Ma che bontà” (1977) e “Le mille bolle blu” dove si ha un trionfo dell’onomatopea con quel “bllll”, effetto vocale che richiama il rumore delle bolle di sapone.

Per arrivare ai lustrini e alle paillettes degli anni ‘80 con il testo nonsense di “Cicale” di Heater Parisi, sigla della trasmissione televisiva di Rai1 “Fantastico 2” (1981), alle provocazioni di Vasco Rossi con “Bollicine” (Coca cola chi vespa mangia le mele / Coca cola chi non vespa più e mangia le pere) e “Lamette” di Miss Rettore (“Dammi una lametta che mi taglio le vene”) fino alla voce dei giovani degli anni Zero con “Wale (Tanto Wale)” dei dARI.

Vasco Rossi – “Bollicine” (live 1987)

Riassumendo per grandi salti, la canzone nella sua unione di musica e parole è sempre stata un potente mezzo di comunicazione, a cui le giovani generazioni hanno affidato i propri messaggi, partendo dagli anni più rivoluzionari che hanno portato a trasgredire le regole del classico “bel canto” a volte urlando, a volte sussurrando, a volte parlando.

Ecco che dal Rock’n’Roll arriviamo all’Hip Hop e al rapping, fenomeno socialmente e culturalmente noto per essere una musica che si basa quasi esclusivamente sul messaggio contenuto nei suoi testi, più parlati che cantati su basi strumentali. Testi che esaltano gli aspetti ritmici delle singole parole, con un linguaggio musicale essenziale, privo di fronzoli, diretto e ripetitivo. Quasi un estremismo di quella rivoluzione iniziata negli anni ’60, un vero e proprio movimento culturale urbano nato già negli anni ’70 sulle strade di sobborghi multiculturali americani, come il Bronx, dove i giovani hanno trovato ancora una volta nella musica un mezzo per esprimere la propria identità e creare un’identità globale in cui riconoscersi.

Oggi questo genere musicale ha conquistato tutto il mondo, generando un imponente fenomeno commerciale e sociale, rivoluzionando il mondo della musica, della danza, dell’abbigliamento e del design. Una sua evoluzione è il tanto discusso Trap (finalmente ci siamo arrivati!), il genere del momento, quello in cui si rispecchiano i giovani di oggi.

A che punto dell’evoluzione siamo? Siamo nei sobborghi di Atlanta negli anni ’90, nelle “trap house” le case dove si preparava e si spacciava droga e dove molti giovani sono finiti “in trappola”. Si comincia quindi a cantare di un mondo di droga e soldi, il beat rispetto al Rap è più spinto, fatto su basi elettroniche, sintetiche, con molto autotune sul cantato. Dal 2010 la Trap ha cominciato a perdere l’animo più sotterraneo e controculturale della scena Rap, approdando al mainstream e ponendo fine a tutti i discorsi sul desiderio di riscatto dalla trappola.

Proprio nel 2010 le prime influenze sono arrivate anche in Italia, fino ad esplodere come vero fenomeno nel 2015 con il successo del trapper Sfera Ebbasta e poi la Dark Polo Gang, Ghali, Achille Lauro (per citarne alcuni) e arrivare alla fine del nostro salto nel vuoto con Young Signorino che nel 2018 è stata la pietra dello scandalo con la sua più che criticatissima “Mmh Ha Ha Ha” dal testo nonsense mentre il 2020 inizia con la polemica di Junior Cally a Sanremo.

Siamo come sempre davanti alla fotografia di una generazione. Una musica di origine afroamericana, nata nei sobborghi delle metropoli degli Stati Uniti che celebra stili di vita marginali: non è una storia già sentita?

Molti definiscono la Trap come “la colonna sonora perfetta per le stories di Instagram”, dura 24 ore e poi scompare. È la colonna sonora di una generazione dominata dai rapporti virtuali in un’epoca piatta. Sono giovani che parlano ai giovani utilizzando il linguaggio che usano abitualmente: grammatica da social network, chat di WhatsApp e serie tv.

Era da tempo che nella storia della musica non si aveva a che fare con un fenomeno di così grande portata, dirompente, forte, così forte da diventare popolarissimo e criticatissimo.

Tutti ne parlano. È la nuova “cattiva musica” da insultare, un po’ come è stato anche per il Rock’n’Roll ai tempi di Elvis. Lo hanno già ricordato in tantissimi: di esempi negativi la storia della musica è piena e non ne sono esenti nemmeno gli intoccabili Beatles. La storia del gusto procede in un continuo ciclo di trasgressione delle convenzioni della stagione precedente, riassorbimento e normalizzazione.

A difesa del passato si può dire che la Trap è una musica prodotta volutamente male, cantata volutamente male, senza ricercatezza, senza un messaggio per cui lottare (penso, ad esempio, al Punk). Il problema non è la Trap, non ha inventato nulla.

musica

Vedere l’armonia: il suono si fa forma

“La Musica è un esercizio aritmetico della mente che conta senza sapere di contare” (Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi) scriveva Leibniz, rifacendosi alle teorie pitagoriche secondo cui il segreto dell’armonia risiede nel potere magico dei numeri.

Ascoltare una bella melodia e pensare che risponda a specifici rapporti matematici è qualcosa di molto astratto, soprattutto per chi non è un musicista. Studiando la teoria musicale si scopre come tutto segua delle regole precise. Nel Medioevo, ad esempio, la Musica (“ars musica”) veniva insegnata nel Quadrivio insieme alle discipline attribuite alla sfera matematica (aritmetica, geometria, astronomia).

La Musica può essere descritta in senso formale come una serie di eventi sonori disposti nel tempo: ogni nota ha una sua funzione perché inserita all’interno di un sistema di relazioni spiegato dalla scienza dell’armonia. Ad esempio, nel sistema musicale occidentale possiamo pensare alla scala di Do maggiore, costituita da 7 suoni diversi per numero di vibrazioni (la frequenza) ai quali per convenzione diamo i nomi di: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La Si.

Come gradini di una scala, questi 7 suoni sono distanti tra loro e la distanza tra un suono e l’altro viene chiamata “intervallo” che quindi rappresenta la differenza di altezza tra due note.

Tornando alla nostra scala di Do maggiore: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La Si e poi nuovamente Do (se vogliamo proseguire e salire sempre di più) il secondo Do è un suono diverso dal primo, è più acuto. Porta sempre il nome di Do perché ha una somiglianza speciale con il primo: ha un numero doppio di vibrazioni per secondo (stanno in rapporto di 2:1) e si dice per convenzione che è all’ottava superiore del primo (in quanto è l’ottavo suono dopo il Do iniziale). Tra Do e Re c’è un intervallo di seconda, tra Do e Mi di terza, tra Do e Fa di quarta e via dicendo.

La distanza tra due note quindi è definita da un ben determinato rapporto numerico: il rapporto delle frequenze di quelle due note. Il discorso è molto complicato da spiegare brevemente, ma spero questo accenno possa far intuire come i suoni delle scale musicali siano collegati tra loro da precisi rapporti matematici.

I rapporti tra le note creano armonia non solo all’udito, ma anche nella forma ed esiste un modo per vedere queste misteriose frequenze e il rapporto magico che creano tra di loro.
Guardate com’è il rapporto di ottava, la distanza tra i due Do di cui parlavamo prima.

Ricorda il numero otto e anche il simbolo dell’infinito. Questa scoperta si deve al matematico francese Jules Lissajous, che a metà del XIX secolo scoprì come proiettare una vibrazione sonora su uno schermo. L’esperimento consiste nel proiettare un raggio luminoso tra le forcelle di un diapason (uno strumento musicale di metallo a forma di U che vibrando produce suoni di un’altezza perfettamente determinata); con un gioco di specchi, il raggio riflette la vibrazione su uno schermo producendo un’onda sinusoidale.

Aggiungendo un altro diapason e sommando due diverse vibrazioni Lissajous scoprì che producevano forme bellissime, oggi conosciute come “figure di Lissajous”, possono essere considerate come l’espressione geometrica dell’armonia musicale.

Erano le prime immagini dell’armonia. Dopo tanta teoria Lissajous ha dimostrato come l’unione di due particolari note in “armonia” tra loro crea non solo suoni armonici, ma anche forme armoniche.

La musica deriva da principi matematici capaci di creare complessità, armonia, varietà e bellezza.

A questo link viene riproposto l’esperimento di Lissajous con i due diapason e il gioco di specchi, proprio come doveva averlo ideato lo scienziato francese.

Mentre grazie alla tecnologia oggi possiamo osservare queste particolari onde con immagini più chiare e dirette:


Infine, una vera magia.

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Le Sirene di Omero. L’incanto del canto, nessun canto.

“Avvicinati dunque, glorioso Odisseo, grande vanto dei Danai, ferma la nave, ascolta la nostra voce. Nessuno mai è passato di qui con la sua nave nera senza ascoltare il nostro canto dolcissimo: ed è poi ritornato più lieto e più saggio. Noi tutto sappiamo, quello che nella vostra terra troiana patirono Argivi e Troiani per volere dei numi. Tutto sappiamo quello che avviene sulla terra feconda”.
(Odissea, XII, 184-191)

Queste sono le sole parole che l’Odissea ci tramanda relative al canto delle Sirene, altro non sappiamo su cosa effettivamente abbia ascoltato Ulisse. Tappate le orecchie dei suoi compagni con cera sciolta al sole, solo lui, stretto da grosse corde sull’albero maestro della nave, ha potuto sentire la soave voce di questi esseri marini. Ma cosa mai avranno potuto cantare queste mitologiche creature di così tanto dolcemente crudele oppure terribilmente soave da indurre in tentazione un uomo così forte nell’animo che già aveva superato ben più difficili prove?

Studiando il rapporto che il mondo greco ha con la Musica scopriamo come nel periodo arcaico dominasse una concezione della musica quale attività di tipo magico-incantatorio e la magia fosse all’epoca un estremo tentativo di controllare le forze naturali che si presentavo all’uomo. Come per molti popoli primitivi (messicani, indù, egizi e cinesi) la musica era lontana da meritare il titolo di “opera d’arte”; essa non rappresenta un fine: è invece un mezzo, una operazione magica, un atto religioso. Nella civiltà greca Orfeo è considerato un dio e tra le sue Muse vi era anche Calliope “dalla bella voce”. I primi musicisti hanno sicuramente cantato per gli dei, non per puro piacere personale, tanto che lo stesso Platone non conosce musica al di fuori della religione, voleva persino che il legislatore si impegnasse a conservare il carattere liturgico alla danza e la canto.

Canto legato al divino e alla magia dunque, difatti le Sirene sono esseri divini. Addentrandoci nel dettaglio della loro genealogia mitologica e iconografia si notano varie incongruenze, che già si palesano nell’etimologia del nome: si può far derivare dal semitico sir “canto magico” oppure da σείριος “incandescente”. Ninfe del mare, sono dette talvolta figlie di Forco, oppure di Acheloo e di Sterpe, in altri casi invece sono ritenute figlie di Tersicore, Melpomene o Calliope, per le loro virtù musicali che le avvicinano alle Muse; altre tradizioni infine le considerano figlie di Gea.

Le Sirene: esseri divini che con il loro canto seducevano (etimologicamente se-ducere “condurre a sé”) i passanti; un canto che al tempo presso i Greci era legato alla magia, all’incantesimo e all’incantare, su queste basi si può ben pensare che non fosse di poco conto il contenuto di tale musica. Ma cosa effettivamente Ulisse abbia sentito non c’è dato sapere, possiamo solamente riflettere su ciò che Omero riferisce: «noi tutto sappiamo» e poco prima «ed è poi ritornato più lieto e più saggio». Quanto meno misteriose queste parole ed è per questo comprensibile che tanto se ne sia scritto e congetturato, al punto da rendere ancora vivo questo mito nel mondo odierno.

Non è un azzardo arrivare al punto di ipotizzare che il tutto (πάντα) da loro conosciuto che avrebbe reso chi le ascoltava più saggio, sia da intendere proprio in senso lato come Tutto ciò che un uomo desidererebbe sapere (tanto da indurre in tentazione anche un eroe scaltro e saggio come Ulisse) ovvero come il Sapere più ampio che conosce tutti i misteri dell’Universo.

Universo e Musica sono legati tra loro sin dai tempi primitivi, in culture dove era presente l’idea stessa di “suono” come substrato dell’universo. Questi concetti bene sono stati esposti da Marius Schneider nel libro dal titolo La musica primitiva (Adelphi, 1992), dove ad esempio si legge che «tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. (…) La fonte dalla quale [un dio] emana il mondo è sempre una fonte acustica». Il suono viene inteso come creatore del mondo: «nato dal Vuoto, è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio», è quindi la prima forza creatrice che in molte mitologie viene personificata da cantori.

Universo e Suono quindi, suono come portatore di creazione, un suono potente, divino, magico… un suono sorgente della Vita capace di racchiudere i misteri dell’Universo? L’ammaliante canto delle Sirene cosa avrà potuto svelare ad Ulisse sui misteri del mondo?

Per risolvere questo quesito si può ricorrere alle filosofe orientali che su questo fondano la loro religione: l’uomo può trovare le risposte solamente dentro di sé. In nessun modo il mistero dell’esistenza può essere svelato, lo si deve comprendere maturando la conoscenza del Sé. A tal proposito si può citare una frase di Buddha che sembra descrivere ottimamente la μήτις che nell’Odissea scalza il κλέος al cui raggiungimento ha invece dedicato la sua breve vita Achille: “Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia”. E sulla tenacia che caratterizza Ulisse, il quale mai ha desistito dal raggiungere la sua meta e a molti affanni ha resistito, si può trovare un parallelo in un insegnamento di Gandhi: “Chi non controlla i propri sensi è come chi naviga su un vascello senza timone e che quindi è destinato a infrangersi in mille pezzi non appena incontrerà il primo scoglio”.

Le Sirene tacciono, lasciano spazio all’introspezione, lasciano alla mente dell’uomo il compito di sciogliere i dubbi che lo attanagliano e trovare in sé la forza di proseguire il suo viaggio. Come scrive Giovanni Pascoli nella poesia “L’ultimo viaggio di Ulisse”, le Sirene sono scogli silenziosi, come dura è la roccia così è difficile scavare nel proprio animo. D’altronde chiaro era il motto Γνῶθι Σεαυτόν (conosci te stesso) scritto sulla pietra del tempio dell’Oracolo di Delfi che per intero recitava: “Uomo conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli dei”. Cosa se non questo potevano urlare nel loro silenzio le Sirene? Silenzio che alle volte assorda, silenzio che indaga, silenzio che può anche far paura.

In conclusione è così che vedo il mio Ulisse: un uomo qualsiasi, non un bellissimo eroe, ma, come lo descrive Polifemo, «un essere piccolo, debole, un uomo da nulla» che non ha compiuto un viaggio verso la salvezza dell’anima, un viaggio iniziatico oppure uno interiore, ma il “semplice” viaggio della vita, con tutto quello che questa affermazione sottintende. Ha chiuso il suo cerchio partendo da Itaca e giungendo a Itaca: fermo nella sua meta, senza mai cambiarla, alla fine l’ha raggiunta. Ha perso la sua identità, è diventato un “nessuno” qualsiasi, ha vissuto mille tentazioni tra le quali raggiungere l’immoralità, ma è riuscito a capire chi era: Ulisse, il re di Itaca. Non era un eroe di battaglia come Achille e non è morto nella gloriosa Guerra di Troia; non era un dio e non ha vissuto da immortale con la splendida Calipso o nella paradisiaca terra dei Feaci.

Lui era Ulisse e come Ulisse è ritornato, ha raggiunto la sua terra e i suoi affetti. Ha pianto, ha sofferto, ha lottato contro mostri, ha visto morire tutti i compagni, si è scagliato contro rocce in balia di mille tempeste, è rimasto nudo e solo, eppure non ha mai ceduto. E lui il canto delle Sirene lo ha ascoltato.