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Under Pressure: un giro di basso dimenticato, copiato e conteso

Nulla accade per caso. La storia della musica è piena di fortunate coincidenze e luoghi magici. Uno di questi è Montreux, la cittadina svizzera affacciata sul lago di Ginevra conosciuta in tutto il mondo per il suo festival Jazz e per i famosi studi di registrazione, i mitici Mountain Studios; nati nel 1976 sulle ceneri dell’incendio che distrusse il Casinò durante un concerto di Frank Zappa (evento che ispirò uno dei più celebri pezzi della storia del Rock: “Smoke on the Water” dei Deep Purple).

I Mountain Studios erano all’avanguardia e richiamarono artisti come David Bowie, Rolling Stones, Led Zeppelin, AC/DC, Michael Jackson e i Queen, che vi approdarono per la prima volta nel 1978. A Montreux oggi svetta anche una statua dedicata a Freddie Mercury che si innamorò così tanto di quel luogo da affermare: “Se cerchi la pace dell’anima vieni a Montreux” e comprarsi una casa dove trascorse la maggior parte degli ultimi anni della sua vita.

La storia di “Under Pressure” inizia qui, ai Mountain Studios nel 1981, mentre i Queen stavano realizzando il loro decimo album “Hot Space” che uscì l’anno successivo. Poco distante da lì, a Blonay, aveva comprato casa anche David Bowie che raggiunse i Queen in studio per lavorare su un pezzo che doveva titolarsi “Feel Like”. Poi il Duca Bianco incise i cori per “Cool Cat” che però venne pubblicata nel disco senza le parti di Bowie: a fine registrazioni non fu soddisfatto del risultato e chiese che venissero cancellate.

Queen & David Bowie “Cool Cat” (demo 1981)


Così Queen e Bowie si misero a lavorare su qualcosa di nuovo, partendo proprio dall’incompiuta “Feel Like” che poco alla volta si trasformò in “Under Pressure”. Una jam session in cui quasi per caso nacque un capolavoro e uno dei giri di basso più famosi della storia del Rock che rischiò di essere dimenticato. Dopo aver provato per ore i musicisti si presero una pausa e andarono a pranzo in un locale del posto, il Local Vaux, tra cibo e buon vino. Quando tornarono in studio John Deacon, il bassista del Queen, non si ricordava più che note avesse composto prima e fu proprio David Bowie a indicargliele sulla tastiera del basso.

Queen & David Bowie “Under Pressure” (1982)


“Under Pressure” prese pian piano forma. Inizialmente doveva intitolarsi “People on Streets” e fu ancora Bowie a suggerire ai Queen di cambiare la tematica e trasformarla in una canzone che descrivesse la società del tempo: la pressione a cui si riferisce è quella esercitata della società sull’uomo.

Era insolito per noi cedere il controllo, ma in realtà David stava avendo un momento di genio. Il resto è storia.

Brian May, intervista per il Mirror

“Under Pressure” diventerà uno dei grandi successi dei Queen e uno dei duetti più riusciti di sempre. Durante i concerti la band di Freddie Mercury lo inseriva regolarmente in scaletta, mentre David Bowie non la cantò mai. La prima volta fu al “Freddie Mercury Tribute Concert” nel 1992 insieme ad Annie Lennox in una ormai storica performance.

Queen & Annie Lennox & David Bowie “Under Pressure”
(live Freddie Mercury Tribute Concert” 1992)


La storia di “Under Pressure” non finisce qui e ha una ripresa bizzarra alcuni anni più tardi. Siamo nel luglio 1990, il rapper statunitense Vanilla Ice pubblica il singolo “Ice Ice Baby”, un grandissimo successo che lo fa diventare il primo artista Hip Hop bianco a raggiungere la vetta delle classifiche.

Non serve essere critici esperti per accorgersi fin dalle prime note che Vanilla Ice per la base strumentale del brano ha campionato il famosissimo giro di basso di “Under Pressure”. Ma c’è un problema: non inserì nei crediti del brano gli autori, Queen e David Bowie. Questo scatenò un’accusa di plagio a cui il rapper tentò di difendersi dando alle volte risposte “fantasiose” come il fatto che la melodia fosse diversa perché ci aveva aggiunto il beat oppure che in realtà si trattasse di uno scherzo in buona fede.

L’accusa di plagio non arrivò in tribunale, ci fu un patteggiamento e i Queen con David Bowie furono aggiunti tra gli autori del brano. Una vicenda che fece riflettere molto sul problema dei diritti d’autore: si poteva arrivare anche a casi come questo in cui un artista (Vanilla Ice) pubblica un brano utilizzando una musica già esistente e famosa (“Under Pressure”) senza prima chiederne il consenso, ottenendo un successo strepitoso. Gli autori hanno potuto solo chiedere la loro quota dei diritti, ma non “eliminare” il brano o rifiutare di esserci. Ormai era troppo tardi. Piaccia o non piaccia “Ice Ice Baby” c’è.

Vanilla Ice “Ice Ice Baby” (1990)
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Che musica si cerca su Google?

Il motore di ricerca Google lo conosciamo tutti, è il più usato al mondo per cercare qualcosa nel web. Forse non tutti sanno dell’esistenza di Google Trends: uno strumento di analisi (gratuito) che offre un enorme database di informazioni sulle oltre 5 miliardi di ricerche che vengono effettuate quotidianamente su Google.

Quali sono gli argomenti più gettonati? Le parole chiave (keyword) più cercate? Le tendenze del momento? Cosa cerca “la gente” su Google?

Google Trends ha le risposte a tutte queste domande e anche ad una mia curiosità: quali sono le ricerche più gettonate associate alla musica? Che “musica” cerca la gente su Google?

Questo è il risultato:

Dati relativi al periodo 3/07/2019 – 3/07/2020
(il valore numerico si riferisce all’indice di interesse, espresso con un punteggio da 0 a 100)

Questi sono i primi 15 risultati delle ricerche più popolari effettuate nel motore di ricerca Google durante l’ultimo anno in Italia associate alla parola “musica”. Risultato evidente e schiacciante: scaricare musica. Gratis. Scaricare, non ascoltare, ovviamente.

Non c’è una curiosità per qualcosa di relativo alla musica, un musicista ad esempio, una canzone (da segnalare un’impennata a febbraio 2020 della ricerca “musica e il resto scompare” titolo del brano presentato da Electra Lamborghini a Sanremo). Interessante notare come la musica “classica” superi di una posizione la musica “italiana”, entrambe battute dalla musica “rilassante” al quarto posto.

Per il resto tranne il revival della “musica anni 80” che appare in fondo classifica (ma lo sappiamo che non se ne esce vivi dagli anni ’80!) il resto è sconfortante: quello che interessa maggiormente è trovare il modo di scaricare musica, gratuitamente, o ascoltarla, sempre gratuitamente, su YouTube. E di modi per farlo legalmente o illegalmente il motore di ricerca risponde con pagine e pagine di link.

Questo mi richiama alla mente una recente intervista al Prof. Alessandro Barbero, storico e notissimo divulgatore lanciato dal programma Superquark di Piero Angela. L’intervista (che potete vedere qui) ha come tema l’insegnamento della Storia e Barbero sottolinea come sia difficile far amare agli studenti una materia così noiosa – se limitata allo stretto nozionismo scolastico – ma in realtà così appassionante e avvincente; dopotutto si parla di “noi”, è la storia dell’umanità, del nostro passato.

Con la Musica penso che la partenza sia opposta e il risultato non si discosti troppo: a tutti piace la musica, tutti la ascoltano, hanno voglia di ascoltarla e si ingegnano con metodi più o meno legali per poterla ascoltare “facilmente”. Ma a quanti poi interessa davvero approfondirla come arte, come portatrice di storia e cultura, al di là di possederla come un bene di consumo che fa compagnia e sottofondo?

Perché si cercano tutti i modi possibili per scaricarla, anche illegalmente, piuttosto che acquistarla? Siamo al paradosso per cui, abituati alla musica gratis, si spendono centinaia di euro per cuffie e altoparlanti da esibire come capi di abbigliamento di lusso e collegare a smartphone costosissimi, ma si faticano a pagare 10 euro al mese per un abbonamento che dà accesso ad un catalogo infinito di 35 milioni di canzoni.

E non è un processo causato dalla musica liquida, che lo ha solo aumentato. I dischi si copiavano anche su cassetta negli anni ’80. È un problema di soldi? Di mentalità? Aveva ragione Adorno quando negli anni ’50 e ’60 tuonava contro la massificazione alienante degli individui messa in atto dall’industria culturale? La tecnologia ha avvilito l’arte, l’ha resa un bene di consumo distorcendone il significato?

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La storia di Hallelujah: Leonard Cohen e Jeff Buckley

Quando un brano oscuro di Leonard Cohen del 1984 viene resuscitato negli anni ’90, poi riproposto e reinventato da altri artisti così tante volte fino a diventare un inno laico contemporaneo, è un po’ come avvistare un unicorno“.

Un articolo del The Atlantic riassume così la storia di “Hallelujah” una delle ballate più belle di sempre a firma di Leonard Cohen; indimenticabile poeta, cantautore, scrittore canadese, dalla voce calda “simile a un rasoio” che ha influenzato generazioni di cantautori.

“Hallelujah” è la sua canzone più iconica e allo stesso tempo il suo brano più travagliato. Oggi è diventata quasi un inno cantato da tutti, anche se non ebbe successo nè la prima e nemmeno la seconda volta che Cohen lo pubblicò.

La storia è molto lunga già a partire dalla fase compositiva che durò cinque anni. Si racconta che una volta Bob Dylan chiese a Cohen quanto ci avesse messo a scriverla e lui mentì dicendo “solo” due anni. Ne scrisse decine di versioni e quasi 80 strofe in totale, di cui ne usò solo quattro per la versione finale.

Avevo riempito due blocchi degli appunti e ricordo che ero al Royalton Hotel [a New York], seduto in mutande sul tappeto, mentre sbattevo la testa sul pavimento dicendomi: “Non riesco a finire questa canzone”.

Leonard Cohen, intervista per The Indipendent

Alla fine Leonard Cohen la pubblicò nel 1984 nell’album “Various Positions”. Era nel lato B, quello riservato ai pezzi non di punta, e infatti fu un fiasco. In un’intervista al The Guardian, Cohen raccontò che anche la pubblicazione del brano fu complicata: la casa discografica, la Sony, non lo riteneva all’altezza. L’enorme popolarità che ottenne in seguito fu per Cohen una vera a propria rivincita.


Il testo

Il significato di “Hallelujah” è controverso e di non facile interpretazione. Nasce in un periodo di dolorosa odissea spirituale per Cohen, di profonde riflessioni filosofiche e religiose. Parole pensate, ripensate, cancellate, riscritte, ma in tutte le versioni sono presenti riferimenti all’Antico Testamento, in particolare alla figura di re Davide.

Davide è stato interpretato come figura perfetta per rappresentare la dualità che da sempre caratterizzava Cohen: da un lato la ricerca della spiritualità, dall’altro l’amore terreno. Due aspetti antitetici e difficili da conciliare. E anche Re Davide amava la musica.

Il secondo verso di “Hallelujah” ricorda un episodio particolare: quando Davide si invaghì di Betsabea vedendola fare il bagno in terrazza e se innamorò, pur sapendo che era sposata con un valoroso e leale guerriero. Così Davide mandò il marito di Betsabea in prima fila contro i nemici per liberarsi di lui. Dio perdonerà Davide per il suo peccato, ma destinerà a morte il primo figlio della coppia. Betsabea pochi versi dopo diventerà Dalila che rubò a Sansone il segreto della sua forza; Sansone come Davide vittima della lussuria e delle sue passioni.

Leonard Cohen – “Hallelujah” (1984)


La critica legge “Hallelujah” come un canto dal significato biblico e secolare insieme, parla di amore, sesso, violenza, religione e di musica.

Tra le varie curiosità nascoste, la prima strofa racconta proprio di Davide nell’atto di comporre una musica gradita a Dio. E il verso “Goes like this, the Fourth, the Fifth, the minor fall, and the major lift” (“Fa così: la quarta, la quinta, la discesa in minore e la spinta in maggiore”) elenca proprio gli accordi con cui è composta: a partire dalla tonalità di Do maggiore troviamo Fa maggiore (IV grado), Sol maggiore (V grado), La minore (VI grado) e passaggio al IV grado. C’è chi legge nel passaggio da minore a maggiore anche una metafora dalla caduta dell’uomo nel peccato da cui è stato salvato da Cristo con la Resurrezione.

Questo mondo è pieno di conflitti e pieno di cose che non si possono conciliare, ma ci sono momenti nei quali possiamo trascendere il sistema dualistico e riunirci e abbracciare tutto il disordine, questo è quello che io intendo per Hallelujah.

Indipendentemente dalla difficoltà della situazione, c’è un momento in cui apri la bocca, spalanchi le braccia, abbracci quella cosa e dici semplicemente “Hallelujha. Benedetto sia il nome”. Non puoi riconciliare quella situazione in nessun altro modo se non con una resa totale, un’affermazione totale. (…) Ecco di cosa si tratta. Se succede che non sarai in grado di risolvere questa cosa – non sarai in grado di stabilirlo – questo regno non ammette la rivoluzione – non c’è soluzione a questo casino. L’unico momento in cui puoi vivere tranquillamente qui tra questi conflitti assolutamente inconciliabili è nel momento in cui li abbracci tutti e dici “Senti, non ci capisco niente – Hallelujah!” Questo è l’unico momento in cui viviamo qui pienamente come esseri umani.

Da un’intervista a Leonard Cohen per RTE Irleand, maggio 1988. Link qui.

“Hallelujah ossessionava Leonard Cohen e anche se non aveva avuto successo la cantava spesso ai suoi concerti, continuando a rimaneggiarla cambiandone ritmi, timbri e parti di testo. Storica la versione registrata ad un live del 1988 e poi pubblicata nella raccolta “Cohen Live” uscita nel 1994.


Le cover e il successo

Fu proprio ad un suo concerto che iniziò la prima importante svolta della storia: tra il pubblico c’era John Cale, altro nome leggendario del Rock, tra le varie fondò insieme a Lou Reed i Velvet Underground. Cale quando ascoltò “Hallelujah” ne rimase folgorato e a fine concerto chiese a Cohen di poterne realizzare una cover. Qualche giorno dopo Leonard Cohen fece recapitare a Cale 15 pagine di appunti, strofe e pensieri che lo arrovellavano da anni. Cale ripescò alcuni scarti e modificò alcune parole. Il risultato venne pubblicato nel 1991 in un album di cover di Leonard Cohen titolato “I’m your fan”. Ma anche in questo caso non ebbe successo.

John Cale – “Hallelujah” (1991)


Il caso volle che una delle copie del disco finisse nelle mani di un giovane musicista, il figlio di Tim Buckley, altra leggenda del Rock, morto troppo giovane di overdose nel 1975. Lui è Jeff Buckley. Jeff iniziò a suonarla nei suoi concerti nei bar dell’East Village e la pubblicò nel suo disco d’esordio, il mitico “Grace” uscito nel 1994. Una versione riarrangiata, cover di quella di John Cale che a sua volta era una cover dell’originale di Leonard Cohen.

Jeff Buckley – “Hallelujah” (1994)


“Hallelujah” nella versione di Jeff Buckley tocca livelli di intensità interpretativa altissimi, è fatta di carne che brucia di passione e soffre. Un capolavoro commentato dalla critica come una delle più grandi cover di sempre. Quasi un’altra canzone rispetto all’originale di Cohen.

Chiunque ascolti attentamente “Hallelujah scoprirà che è una canzone che parla di sesso, di amore, della vita sulla terra. L’alleluia non è un omaggio alla persona adorata, a un idolo o a un dio, ma è l’alleluia dell’orgasmo.

da un’intervista di Jeff Buckley al The Guardian:

La vita di Jeff Buckley però finì tragicamente, solo tre anni dopo nel maggio del 1997 quando venne misteriosamente inghiottito dalle acque di un affluente del Mississippi, a Memphis. Buckley aveva solo trent’anni, entrò nella leggenda e Hallelujahcon lui.

In moltissimi ripresero la versione di Jeff Buckley, ormai quella universalmente più nota: si contano oltre 200 versioni di artisti di fama, decine di utilizzi in programmi televisivi, pubblicità e colonne sonore di film campioni d’incassi.

Penso che sia una buona canzone, ma penso che siano in troppi a cantarla.

Leonard Cohen

la versione di Rufus Wainwright per il film “Shrek” (2001)
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“Cocaine” è contro la droga e non è di Eric Clapton

Nel mondo della musica ci sono personaggi importanti, soprattutto autori, che rimangono nell’ombra, nomi cult per molti musicisti e appassionati, ma sconosciuti al grande pubblico. È il caso, ad esempio, di JJ Cale; chitarrista dell’Oklahoma che negli anni ’50 e ’60 aveva sviluppato insieme ad altri il cosiddetto “Tulsa Sound” un genere che mischiava blues, country, jazz e rockabilly.

JJ Cale è stato un maestro per tanti musicisti come Mark Knopfler, Neil Young, Eric Clapton, ma le sue canzoni più conosciute sono state portate al successo da altri come “After MidnighteCocaine”. Due hit portate al successo da Eric Clapton, legato a JJ Cale da una grande amicizia, poi i due nel 2006 incideranno insieme l’album “Road To Escondido.

Mandatemi i soldi – ha detto una volta JJ Cale – e lasciate la fama ai più giovani.

JJ Cale uscì dall’anonimato grazie ad Eric Clapton, che nel 1970 inserì nel suo primo album solista After Midnight. Fu il primo singolo della carriera solista di Clapton e fino a quel momento era una demo di JJ Cale che non aveva ottenuto successo.

JJ Cale – “Cocaine” (1976)


E fu così che anni dopo, nel 1977, quando Clapton stava ultimando il suo album “Slowhand” prese un altro pezzo di JJ Cale, “Cocaine” pubblicato per la prima volta nel 1976 nell’album “Troubadour” e che passò inosservata. La versione di Clapton divenne una hit mondiale, “Slowhand” fu il suo album di maggior successo con milioni di copie vendute in tutto il mondo; Cocaine è tra i pezzi più famosi di Mr Slowhand, (nomignolo datogli agli inizi della sua carriera a causa della sua lentezza nel sostituire le corde della chitarra) e oggi un grande classico del Rock.

La versione di Clapton è più veloce rispetto all’originale e mette maggiormente in risalto le sonorità rock-blues rispetto a quelle vagamente jazz di JJ Cale. È uno dei pezzi più amati dai suoi fan e l’autore originale è stato per molti dimenticato, anzi, visti i problemi di tossicodipendenza di Clapton, era lecito pensare si trattasse di un brano autobiografico.

Eric Clapton “Cocaine” (1977)


Il testo è stato letto con un incitamento all’uso di cocaina e la traccia fu molto criticata e addirittura censurata e tolta dall’album nelle versioni del disco distribuite in Argentina. In realtà, come spiegò in seguito Eric Clapton, era una canzone contro la droga senza moralismi, puntava ad evidenziare gli effetti causati dalla cocaina sperando di ottenere un risultato più efficace:

Non è una buona cosa scrivere una canzone che sia chiaramente contro la droga e poi semplicemente sperare che faccia presa sulla gente. L’unico risultato che si otterrà, in questo modo, sarà di innervosirla. La cosa migliore è offrire alle persone un testo ambiguo, il cui vero messaggio possa essere scoperto attraverso una lettura più attenta e approfondita dei versi. L’ascoltatore rimane colpito dal ritornello “She don’t lie, she don’t lie, cocaine” (“La cocaina non mente”), ma il testo dice anche “If you wanna get down, down on the ground, cocaine” (“Se vuoi stramazzare al suolo, cocaina”). È triste vedere che i giovani distruggono le vite con le droghe. Odio riascoltare i miei vecchi dischi in cui ero fatto o ubriaco” – Eric Clapton

da un’intervista rilasciata al magazine tedesco “Stern” nel 1998 e tratta dal libro “1000 canzoni che ci hanno cambiato la vita” di Ezio Guaitamacchi

In seguito Eric Clapton apportò anche una modifica al testo di JJ Cale aggiungendo il verso: “That dirty cocaine” (“Quella sporca cocaina”). Clapton poi ce l’ha fatta, dalla dipendenza da droga e alcool ne è uscito, e nel 1998 ha aperto un centro di riabilitazione per tossicodipendenti, il “Crossroads Center”, vicino alla sua abitazione ad Antigua, nei Caraibi.

Eric Clapton e J J Cale – “Cocaine” (live, San Diego 2007)
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L’enigma di “All Along the Watchtower”

“All Along the Watchtower” è una delle canzoni più note di Jimi Hendrix, anche se è nata dal genio di Bob Dylan; due grandi e immortali nomi incisi nella storia della musica.

A scriverla è stato Bob Dylan, pubblicata nel 1967 nell’album “John Wesley Harding”. Era il primo lavoro dopo l’incidente in moto che lo aveva costretto ad una lunga pausa. Un nuovo inizio di carriera che lo ha visto tornare alla ruvida essenzialità acustica degli esordi: solo chitarra, armonica e voce.

A renderla immortale è stato Jimi Hendrix, con una cover psichedelica talmente potente e incendiaria da offuscare l’originale di Dylan. Uscita nell’album “Electric Ladyland” (1968), “All Along the Watchtower” di Hendrix si piazzò in vetta alle classifiche, inaspettatamente, vendendo più di ogni altra sua canzone precedente. Hendrix l’aveva trasformata, metabolizzata, rigenerata al punto da creare quasi un brano originale.

Una versione che piacque molto anche a Bob Dylan che in seguito nei suoi concerti la ripropose con il nuovo arrangiamento di Jimi Hendrix. Dylan è stato un punto di riferimento molto presente nell’evoluzione musicale di Hendrix:

Tutte quelle persone a cui non piacciono le canzoni di Bob Dylan dovrebbero leggere i suoi testi. Sono piene delle gioie e della tristezza della vita. Io sono come Dylan, nessuno di noi può cantare normalmente. A volte suono le canzoni di Dylan e le trovo così simili a me che sembra quasi che le abbia scritte io.

Sentivo “Watchtower” come una canzone che avrei potuto fare io, ma sono sicuro che non l’avrei mai finita. Pensando a Dylan, credo che non sarei mai stato in grado di scrivere le parole che riesce a tirare fuori, ma vorrei che mi aiutasse, perché ho un sacco di canzoni che non riesco a finire. Metto qualche parola sul foglio e non riesco ad andare avanti. Ma ora le cose stanno migliorando, sono un po’ più sicuro di me stesso”. – JIMI HENDRIX

“All Along the Watchtower” è forse la più esoterica tra le canzoni di Dylan, un testo enigmatico con molti richiami biblici, da sembrare scritto con il libro di Isaia sottomano (pur senza rinnegare la sua origine ebraica, la Bibbia cristiana è sempre stata il testo guida di Dylan).

Tutta la canzone è giocata in chiave allegorica, le interpretazioni e i livelli di lettura sono innumerevoli; è uno dei testi più controversi di Dylan la cui efficacia compositiva nell’unire parole e musica è indiscussa, tanto da essere stato premiato con il Nobel per la Letteratura nel 2016 per aver “creato nuove espressioni poetiche all’interno della tradizione della canzone americana”.

Jimi Hendrix – “All Along the Watchtower” (1968)



In “All Along the Watchtower” i riferimenti storici e biblici sono così tanti ed evidenti da rendere palese la volontà di Dylan di voler celare un messaggio contemporaneo attraverso il racconto di una storia antica come la distruzione di Babilonia. È proprio Isaia a parlare di una “torre di guardia” (the watchtower) a preannunciare la caduta di Babilonia.

“There must be some way out of here” said the joker to the thief
“There’s too much confusion, I can’t get no relief.
Businessmen, they drink my wine, plowmen dig my earth.
None of them along the line know what any of it is worth”


“Dovrebbe esserci una via d’uscita” disse il giullare al ladro, “Qui c’è troppa confusione non riesco a trovare conforto / Uomini d’affari bevono il mio vino, contadini arano la mia terra / nessuno di quelli in fila conosce il valore di tutto questo.

La prima strofa del brano presenta subito i due protagonisti, un giullare e un ladro, e sembra mettere davanti ai nostri occhi una moderna Babilonia (spesso utilizzata come sinonimo di “confusione”), piena di gente pronta ad approfittare della minima occasione.

Nelle parole del giullare c’è chi ha letto le parole di Cristo alla ricerca di una via d’uscita al Male che pervade il mondo. Uomini d’affari bevono il vino, contadini scavano la terra: forse un riferimento al sangue (il vino) e al corpo (la terra) di Cristo offerti in remissione dei peccati? Seguendo questa lettura il verso “nessuno di quelli in fila conosce il valore di tutto ciò” potrebbe descrivere i cristiani in fila per ricevere la comunione, senza capire il significato profondo di quell’azione.

“No reason to get excited”, the thief, he kindly spoke
“There are many here among us who feel that life is but a joke
but you and I we’ve been through that and this is not our fate
so let us not talk falsely now, the hour is getting late”.


Non ti devi preoccupare” disse gentilmente il ladro / “Sono in molti qui tra noi che hanno la sensazione che la vita sia solo un gioco / ma tu ed io siamo andati oltre e questo non è il nostro destino / così non parliamo ingiustamente adesso si sta facendo tardi”.

Nella seconda strofa il ladro risponde al giullare: se prima il giullare si lamentava che gli venisse rubato tutto, ora il ladro si lamenta di chi considera la vita solo come un gioco, uno scherzo. Si rimproverano quasi l’uno con l’altro, ma entrambi sanno che non è quello il loro destino e qualcos’altro li attende.

Seguendo la spiegazione biblica il ladro potrebbe essere il buon ladrone, al quale Gesù sulla croce annuncerà che presto sarà con lui in Paradiso; e il giullare chi invece pensa che sia tutto uno scherzo, i membri del Sinedrio e i soldati romani che schernivano Gesù.

Ma qui entra in gioco un’altra chiave di lettura: ladro e giullare potrebbero essere il Bob Dylan uomo e il Bob Dylan artista, riferimento che vale anche per Jimi Hendrix. Forse un momento di crisi dell’artista che cerca una via d’uscita dai “businessmen” e i “plowmen” che si arricchiscono alle spalle del suo lavoro e della sua bravura, che cercano di controllarlo e scavare dentro di lui. L’uomo e l’artista stanno pagando il successo a caro prezzo.

All along the watchtower, princes kept the view
while all the women came and went, barefoot servants, too.

Outside in the cold distance a wild cat did growl
two riders were approaching and the wind began to howl.


Per tutto il tempo alla torre di guardia i principi stavano all’erta / le donne andavano e venivano, anche i servi a piedi nudi. / Fuori in lontananza un puma ringhiò / due cavalieri si stavano avvicinando e il vento incominciò ad ululare.

Ecco la terza e ultima strofa. Qui inizia la storia: il ladro e il giullare sono due cavalieri che si dirigono insieme, uniti nei loro ideali, verso la torre di guardia (the watchtower). C’è paura, si sente il pericolo, tra premonizioni e minacce il racconto si conclude con l’ululare del vento… forse lo stesso vento carico di risposte di “Blowing in the Wind”?

Questi versi sono stati interpretati come una chiara ripresa dal Libro di Isaia (21:8-9) in cui si legge: La vedetta ha gridato: «Al posto di osservazione (watchtower), Signore, io sto sempre, tutto il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutta la notte. Ecco, arriva una schiera di cavalieri, coppie di cavalieri». Essi esclamano e dicono: «È caduta, è caduta Babilonia! Tutte le statue dei suoi dèi sono a terra, in frantumi».

“All Along the Watchtower” annuncia la caduta di Babilonia, la sede della corruzione e del male del mondo, per tutto il testo, senza però nominarla mai. I due cavalieri, il ladro e il giullare, stanno arrivando ad annunciarne la caduta?

Forse il vento che soffia (“the wind began to howl”) potrebbe essere un riferimento agli Angeli del Signore che si schierarono su Babilonia e cominciarono ad agitare le ali, creando un vento così forte da distruggere tutta la città.

Forse il giullare e il ladro sono la stessa persona: Bob Dylan da un lato e Robert Allen Zimmerman dall’altro. Il giullare è la rock star che sembrava aver preso il sopravvento nella stagione all’inferno che aveva preceduto il disco “John Wesley Harding” e il ladro il cantautore che Dylan ha preso coscienza di essere nella nuova fase della sua carriera.

Ma il testo potrebbe anche alludere, in senso più generico, alla parte umana, terrena, dell’uomo in contrapposizione all’anima spirituale. Il giullare oppresso dalle ingiustizie della vita, viene contrapposto alla figura del ladro che ha l’assoluta tranquillità di chi è giunto ad un livello più alto di conoscenza.

O forse sono solo due uomini che cavalcano verso il loro destino, in fuga da un mondo corrotto che li rendeva miseri e patetici.

Non lo sapremo mai, Bob Dylan ha lasciato a noi ascoltatori la conclusione della storia.

Bob Dylan – “All Along the Watchtower” (1967)
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Twist and Shout: produzioni sbagliate e voci stremate non fermano una hit

“Yeah! Shake it up baby now, twist and shout” (sì, agitati piccola, balla il twist e urla) era l’inizio perfetto delle notti infuocate dalla “Beatles-mania”, di folle di fan urlanti e la voce John Lennon che provava a sovrastarle. I Beatles la terranno fissa in scaletta fino alla fine del loro tour americano dell’agosto 1965.

“Twist and Shout” è uno dei successi pubblicati nel marzo 1963 in “Please Please Me” il primo album dei Beatles, il debutto sul mercato di un gruppo che ha cambiato per sempre le sorti della storia della Rock. All’interno del disco c’erano 14 canzoni: 8 originali e 6 cover tra cui “Twist and Shout”.

La storia di questo brano inizia qualche anno prima, nel 1961 quando un giovane Phil Spector (che diventerà uno dei produttori più influenti e rivoluzionari della storia della musica contemporanea) volle lanciare un nuovo gruppo vocale, i Top Notes. Spector scelse per loro il brano “Twist and Shout” composto da Bert Berns (con lo pseudonimo di Bert Russell) e Phil Medley che l’avevano appena presentata alla Atlantic Records.

Top Notes – “Twist and Shout” (1961)

La canzone fu pubblicata nel settembre 1961 ma non ottenne alcun successo: fu un passo falso del produttore Phil Spector. Jerry Wexler, co-fondatore della Atlantic Records, racconta come fosse stata sbagliata la scelta dell’arrangiamento, l’atmosfera e il tempo. Si racconta che a fine registrazione Bert Berns abbia detto a Wexler: “Complimenti amico, l’avete rovinata”.

Per fortuna la storia di “Twist and shout” non si è fermata qui. Nel 1962 Bert Berns la propone agli Isley Brothers, un gruppo americano di R&B e Soul che aveva da poco raggiunto il successo con il singolo “Shout!”. Questa volta Berns di occupò personalmente della produzione del brano che fu pubblicato nel giugno del 1962 e ottenne un buon successo arrivando al diciassettesimo posto delle classifiche americane.

Isley Brothers – “Twist and Shout” (1962)

Il successo degli Isley Brothers verrà presto spazzato via dalla dirompente discesa sul mercato dei Fab Four. Erano le 10 del mattino di lunedì 11 febbraio 1963 quando i Beatles entrano in sala di incisione per registrare il loro primo disco: 10 pezzi in un giorno solo.

Ricorda il produttore George Martin: «Sapevo che “Twist and Shout” gli avrebbe ucciso la gola e così dissi: “Registreremo questo pezzo solo alla fine della giornata, sarà l’ultimo”. Se l’avessimo registrato prima, John sarebbe rimasto sicuramente senza voce. Così facemmo e “Twist and Shout” fu l’ultima cosa che incidemmo quella notte. Volevo due take. Dopo la prima John rimase completamente afono, io avrei voluto qualcosa di meglio, ma anche così era abbastanza buona per il disco».

dal libro ” The Beatles. Yeh! Yeh! Yeh!: Testi commentati. 1962-1966″ di Massimo Padalino

L’ingegnere del suono, Norman Smith, racconta che dopo 12 ore in sala di registrazione le voci dei Beatles erano completamente andate e John succhiava avidamente le sue mentine per la gola facendo qualche gargarismo con il latte per riuscire a portare a termine le registrazioni. Anni dopo John Lennon dirà:

Non riuscivo più a cantare quella maledetta roba, urlavo e basta. Avrei potuto cantarla meglio di così, ma ora non mi importa più: senti un ragazzo affannato che cerca di fare del suo meglio!.

The Beatles – “Twist and Shout” (1963)

La versione dei Beatles è abbastanza fedele a quella degli degli Isley Brothers, compreso l’intro che ricorda molto “La Bamba” di Ritchie Valens, anche se trasformarono la sonorità da R&B a Rock. “Twist and Shout” uscirà il 22 marzo 1963 nell’album “Please Please Me“, successivamente negli Stati Uniti come singolo 2 marzo 1964 e raggiungerà il secondo posto in classifica il 4 aprile 1964 in una settimana in cui tutte le prime cinque posizioni erano occupate dai Beatles.

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Jimi Hendrix: tutto iniziò con la cover di “Hey Joe”

“Hey Joe” è la canzone da cui è iniziato tutto: ha permesso a Jimi Hendrix di diventare “Jimi Hendrix” e passare alla storia come uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi. Jimi Hendrix è un nome leggendario che tutti conosciamo anche senza magari sapere bene perché sia stato uno dei maggiori innovatori nel modo di suonare la chitarra elettrica.

Tutto iniziò a metà anni ’60 in America, Hendrix a quel tempo si faceva chiamare Jimmy James e suonava la chitarra nei “Jimmy James and the Blue Flames”. Una sera si esibirono al locale “Cafe Wha?” nel Greenwich Village di New York e tra i pezzi in scaletta era stata inserita anche una cover: “Hey Joe”. Ad ascoltarli c’era Chas Chandler, al tempo bassista degli Animals, che rimase letteralmente folgorato dalla bravura e dal talento di quel giovane chitarrista mancino. Chandler la sera stessa chiese ad Hendrix di diventare il suo manager e lo portò a Londra; Noel Redding e Mitch Mitchell entrarono nella band e diedero vita alla “Jimi Hendrix Experience”.

Il singolo scelto per il debutto fu proprio “Hey Joe” (inizialmente rifiutato dal direttore artistico della Decco che non colse il potenziale del brano) pubblicato nel dicembre 1966 dalla Polydor Records. A gennaio 1967 il 45 giri “Hey Joe – Stone Free” era tra i dischi più venduti della classifica britannica e fece da apripista al primo album di Jimi Hendrix “Are You Experienced” considerato una delle pietre miliari del Rock.

La lungimiranza di Chas Chandler diede vita all’inarrestabile ascesa di Jimi Hendrix nell’olimpo del Rock, grazie alla leggendaria versione di quella “Hey Joe” suonata al Greenwich Village sostituendo la chitarra acustica dell’originale con la chitarra elettrica.

Jimi Hendrix – “Hey Joe” (live – Monterey Pop Festival, 1967)


“Hey Joe” di Jimi Hendrix è la cover di un brano blues inizialmente etichettato come “traditional” cioè musica della tradizione non soggetta al diritto d’autore. Venne inizialmente attribuita a Dino Valenti (cantautore statunitense meglio conosciuto come Chet Powers) poi rivendicata e accreditata nel 1962 a Billy Roberts, musicista americano che agli inizi degli anni 1960 si recò a New York stabilendosi nel Greenwich Village dove suonava per le strade e nei caffè.

Billy Roberts a sua volta prese spunto da una ballata popolare di inizio Novecento intitolata “Little Sadie” che racconta di un uomo in fuga dopo aver ucciso la propria donna, esattamente come in “Hey Joe”; inoltre gli avvenimenti narrati si svolgono nella Carolina del Sud da cui era originario Roberts. Un’altra fonte di ispirazione è un pezzo country di Carl Smith del 1953, intitolato proprio “Hey Joe”, in cui invece questo Joe era un amico del cantante al quale voleva rubare la moglie. Ultimo probabile spunto di Roberts è “Baby, Please Don’t Go to Town” (1955) della sua fidanzata dell’epoca Niela Miller che presenta una progressione di accordi quasi identica.

Billy Roberts – “Hey Joe” (1962)


La prima esecuzione dal vivo di Jimi Hendrix di “Hey Joe” fu al Monterey Pop Festival nel 1967 ed è stata anche la prima volta che venne presentata live ad un grande pubblico. Sarà anche la canzone di chiusura dello storico festival di Woodstock. Leggenda nella leggenda, si dice che “Hey Joe” sia il brano di cui sono state pubblicate più cover al mondo. Dopo Hendrix lo hanno rifatto un po’ tutti: dai Deep Purple agli Offspring, Björk, Cher… e anche Franco Battiato!

Non poteva rimanerne indifferente nemmeno la scena Beat italiana degli anni ’60 che così tanto si ispirava ai successi inglesi e americani. A farne una cover nel 1967 fu Giancarlo Martelli, in arte Martò, uno dei pionieri della scena beat di Bologna che affidò la traduzione del testo a Francesco Guccini, uno dei padri della canzone d’autore italiana impegnata.

Martò (testo di Francesco Guccini) – “Hey Joe” (1967)
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Surfin’ U.S.A.: Beach Boys vs. Chuck Berry

Siamo nella California anni ’60, gli anni in cui nacque un sottogenere del Rock ispirato alla moda che spopolava tra i ragazzi di allora, il surf. La Surf Music a differenza del Rock ‘n’ Roll, non aveva finalità politiche o di protesta sociale, era una musica divertente per gli adolescenti spensierati, sportivi, che amavano il sole e le spiagge della California.

Il 1963 è l’anno del grande successo mondiale dei Beach Boys che con la loro “Surfin’ U.S.A.” balzarono in vetta alle classifiche risultando alla fine dell’anno il singolo più venduto negli Stati Uniti.

Beach Boys – “Surfin’ U.S.A.” (1963)


Il testo fu scritto dal cantante Brian Wilson, parla ovviamente di estate, spiagge e cita i luoghi più belli dove fare surf, suggeriti dal fratello della sua ragazza; pare infatti che i Beach Boys in realtà non fossero dei surfisti, tranne il batterista Dennis Wilson. Il risultato è un vero inno alle coste del Pacifico: Del Mar, Ventura County, Santa Cruz, posti fantastici che ogni surfista ancora oggi vorrebbe visitare, e ancora Waimea Bay (Hawaii) e Narabeen (Australia).

Stavo canticchiando “Sweet Little Sixsteen” e mi piaceva un sacco. Così ho pensato di provare a mettere un testo Surf su quella melodia. L’idea era più o meno “Loro fanno questo in questa città e quest’altro in un’altra” come un twist di Chubby Checker, “Twistin U.S.A.”. Così ho pensato di chiamarla “Surfin’ U.S.A.”. Al tempo stavo uscendo con una ragazza che si chiamava Judy Bowles e suo fratello, Jimmy, era un surfista che conosceva a menadito tutti i posti dove si praticava il surf. Così gli ho detto: “Voglio fare una canzone citando tutti i posti dove fare surf” e lui mi fece una lista!

Brian Wilson (tratto dal libro “Becoming the Beach Boys, 1961-1963” di James B. Murphy)

La scanzonata e divertente “Surfin’ U.S.A.” è stata al centro di un grosso scandalo: Brian Wilson ha davvero preso molta “ispirazione” dalla canzone “Sweet Little Sixsteen” (1958) di Chuck Berry, il padre del Rock ‘n’ Roll (vi dico solo: “Johnny B. Goode” del 1959), che sfociò in una clamorosa disputa legale.

Brian Wilson dei Beach Boys cercò di difendersi dicendo che il suo voleva essere un tributo a Chuck Berry e non un plagio, peccando però di superficialità non chiedendogli il permesso di rielaborare la sua canzone. Il manager dei Beach Boys e il padre di Brian Wilson accettarono di cedere i diritti di distribuzione ad Arc Music, cioè a Chuck Berry. Il nome del chitarrista poi apparirà nella lista degli autori a partire dal 1966.

L’incidente di “Surfin U.S.A.” è ricordato come il primo grande caso di plagio della storia del Rock, ora giudicate voi:

Chuck Berry – “Sweet Little Sixsteen” (1958)
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Piece of My Heart: Erma Franklin e la cover di Janis Joplin

Take it!
Take another little piece of my heart now, baby
Break it!
Break another little bit of my heart now, darling

Per chi ha ascoltato questa canzone almeno una volta, è impossibile non leggere questi versi senza pensare alla voce di una delle rockstar più famose e amate di tutti i tempi. “Piece of my heart” è uno dei brani più conosciuti della storia del Rock e lei è la leggendaria Janis Joplin.

Nata in una piccola città del Texas è diventata la più grande cantante blues del XX secolo, almeno tra le cantanti bianche. Anticonformista, ribelle, una donna apparentemente forte e determinata, ma in realtà molto sola, ha vissuto un’esistenza tormentata tra alcool e droghe, finita a soli 27 anni nell’ottobre del 1970.

La svolta arrivò quando insieme al suo gruppo i Big Brother and the Holding Company si esibì in una performance indimenticabile al Monterey Pop Festival nel giugno del 1967 e con il successo mondiale dell’album “Cheap Thrills” uscito nel 1968 e volato al primo posto nelle classifiche Billboard restandoci per otto settimane con più di un milione di copie vendute. “Cheap Thrills” conteneva tre cover: “Summertime” di George Gershwin, “Balld and Chain” di Big Mama Thornton e il singolo “Piece of My Heart”.

La storia di “Piece of My Heart” inizia prima di Janis Joplin e si intreccia con la storia di un’altra cantante che ha passato la vita all’ombra di sua sorella Aretha: Erma Franklin. “Piece of My Heart” è stata scritta da Jordan “Jerry” Ragovoy e Bert Berns e pubblicata per la prima volta nell’agosto del 1967. Anche se Bert Berns avrebbe voluto che a registrarla fosse Van Morrison, artista che all’epoca stava producendo, ma rifiutò l’offerta per concentrarsi sulle sue canzoni che stava incidendo.

Erma Franklin – “Piece of My Heart” (1967)


La voce black e calda di Erma ne diede una bellissima interpretazione Soul, il brano arrivò nelle classifiche R&B, ma non ci restò molto. Fu poi eclissato dall’interpretazione che ne fece Janis Joplin ed Erma Franklin ebbe il suo meritato successo solo nel 1992 quando la sua versione di “Piece of My Heart” fu scelto come colonna sonora di una fortunata pubblicità dei jeans Levi’s che potete vedere cliccando qui.

In un’intervista Erma Franklin dichiarò che la prima volta che ascoltò la versione di Janis Joplin non la riconobbe subito, era molto diversa sia come arrangiamento che come interpretazione. Non era più un caldo dolore d’amore, ma un grido di passione e rabbia scagliato al cielo da un urlo quasi primordiale. Nella versione di Janis Joplin “Piece of My Heart” diventa una canzone in cui esplode la sua furia, la sua energia, un graffio continuo dall’inizio alla fine che traduce in musica la sua sofferenza.

“Piece of My Heart” è l’anima di Janis Joplin messa a nudo in 4 minuti di canzone. È uno dei brani centrali della fine degli anni ’60 e dell’epoca Hippy che poi Janis canterà da solista in una memorabile interpretazione a Woodstock nel 1969. Un brano che continua a brillare ancora oggi.

Janis Joplin – “Piece of My Heart” (1968)
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La musica non fa valentuomini, ma buffoni

Se vi dicessi che il Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che la musica non va insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni» mi credereste?

È tutto vero. Siamo nel 1865 e Francesco De Sanctis, Ministro dell’Istruzione nel 1861, consigliò al suo successore Giuseppe Natoli dalle colonne del giornale “L’Italia” di non insegnare alcune materie ritenute superflue e ne elencava alcune tra cui il Francese, la ginnastica e “il ballo” ad indicare con spregio la Musica.

Tutta questa roba, non bisogna, non si può digerire, non fa valentuomini, ma buffoni. Quello che i giovanetti debbono saper bene è la loro lingua, scriverla correttamente, esprimere i loro pensieri con ordine e semplicità; poi saper la storia e la geografia, l’aritmetica, la geometria e principi di algebra. […] Il neces­sario per i giovanetti non sono le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto, di fermarsi su le cose, di considerarle per ogni verso. Acquistato quest’abito, acquistato il giudizio, si vola poi sopra tutto il sapere, si comprende facilmente, si legano insieme le cognizioni che si vengono acquistando.

Il testo fu ripubblicato nel libro di Francesco De Sanctis “L’istruzione media. Omaggio alla casa editrice Laterza nel X Congresso della Federazione Nazionale fra gl’insegnanti delle Scuole Medie” (Laterza, 1919). Per De Sanctis, gli alunni non devono acquisire «le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto»: la musica e le discipline artistiche in generale, secondo il letterato, non si confanno a tale scopo. O meglio, leggendo per intero l’articolo, il senso del discorso di De Sanctis era che per voler insegnare troppo, si rischia di finire per non insegnare nulla.

Sono passati 155 anni, alcune materie si sono attivate, ma certi pregiudizi non sono molto cambiati. Fare il musicista non viene considerato come un mestiere, ma un hobby, un passatempo, un capriccio, una sorta di moderno giullare alla mercé delle corti televisive. La Musica non è arte: è un sottofondo sonoro delle nostre giornate, la colonna sonora di viaggi in auto, qualcosa da canticchiare sotto la doccia.

In realtà lo sappiamo che la Musica è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero addirittura essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse la colpa è di alcuni buffoni che riempiono le pagine dei giornali e dei programmi televisivi che si nutrono di scandali e gossip, aumenta lo share e aumenta il fatturato.

Dovrebbe cambiare il modo di approcciarsi alla Musica cercando di capirla per il suo valore: da un ascolto passivo passare ad un ascolto attivo. Il significato della Musica non sta solo negli oggetti musicali, ma in ciò che la gente fa con la musica: come la sia ascolta, come la si suona e perché. Studiare la Musica non è solo studiare la storia delle opere e dei grandi nomi: è la storia degli uomini che hanno fatto, ascoltato e parlato di musica.

Parlare di musica è parlare della società di ieri e di oggi. Parlare di Musica è parlare di storia, di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Ma anche di matematica, geometria, scienza, filosofia, psicologica, medicina… Ci si potrebbe basare un intero programma scolastico!

È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di
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