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Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 2)

Sono stata alla Biennale di Venezia qualche giorno fa e girando tra i vari padiglioni nazionali la musica mi ha sommersa. Non solo nel padiglione Gran Bretagna, vincitore del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale con “Feeling Her Way” di Sonia Boyce; un’installazione che indaga musica e identità, improvvisazione e libertà. Ne ho già parlato qui: Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 1).

Uno dei luoghi che più mi ha stupito e affascinato è un piccolo padiglione, a Campo della Tana, proprio di fronte alle porte d’ingresso dell’Arsenale. Ad entrata libera. Era un appartamento veneziano della classe operaia, uno spazio che conserva le memorie dei suoi precedenti inquilini, offrendo un rifugio temporaneo al Padiglione Nazionale dell’Armenia.

Padiglione Armenia

Un padiglione collocato in un luogo diverso, non nelle due sedi centrali dell’Arsenale o dei Giardini. Un padiglione dove la Musica è protagonista di una riflessione su concetti come estraneità e appartenenza.

Andrius Arutiunian, artista e compositore armeno-lituano classe 1991, ha intitolato questo progetto Gharīb. Una parola dalle origini quasi criptiche, nata tra le terre del Caucaso e del Medio Oriente che si traduce come “lo straniero che entra nella nostra cerchia”. Lavorando con forme ibride di suono, creando strutture auree e fonti di suono sintetico, ha voluto rendere in musica un senso di appartenenza e straniamento che permea gli immaginari arabo, armeno e farsi. Gharīb è un termine associato ad attività sommerse e clandestine di produzione musicale, centri ricreativi illegali, commerci di sostanze psicotrope e marginalità politica.

Accordature alternative e modalità di dissenso sonoro creano una forma di dissonanza rispetto alle interpretazioni, tanto musicali quanto politiche, di tempo, ritmo e sintonia influenzate dall’Occidente. Affiora una partitura musicale, costellata delle voci sommesse degli inascoltati, degli scomparsi e dei radicali.

“Gharīb, dissonanza e liminalità, un modo di ritracciare i margini politici. Un’oscillazione radicale tra dissenso e accordo. Integrarsi e scomparire, esistere ed evaporare allo stesso tempo, riscoprire il mondo. Ecco allora cosa fare, non farsi ingannare da ciò che è reale. Optare invece per sistemi disordinati di elusività. Schivare l’ordine pervasivo, risintonizzarsi e poi dissiparsi completamente.”

You Do Not Remember Yourself

Arutiunian mette in atto questa riflessione attraverso diverse installazioni musicali, come “You Do Not Remember Yourself”. Un enorme strumento musicale di sei metri formato da una sottile lamina di ottone ricurva e flessibile (You do not remember yourself: non ricordarsi di se stesso). Dei microfoni e degli altoparlanti a contatto con la lastra d’ottone trasmettono il suono (si tratta di registrazioni vocali distorte, manipolate elettronicamente) facendo vibrare il metallo che così diventa lo strumento stesso di trasmissione sonora, uno strumento musicale che suona di risonanze naturali e diafonia. Una curiosità: se si tocca la lastra d’ottone la si sente vibrare chiaramente e il suono varia.

Andrius Arutiunian, You Do Not Remember Yourself, brass instrument, 1x6m, surface transducers, sound, 2022

Seven Common Ways of Disappearing

Camminando tra le stanze di questo ex appartamento veneziano, si arriva all’installazione centrale presente nell’ex molo dal titolo “Seven Common Ways of Disappearing”. La stanza è vuota, tranne per un giradischi, un amplificatore stereo e due casse che riproducono continuamente, per tutto il giorno, la musica di un vinile. Sulla parete opposta sono riprodotti due strani disegni geometrici: è la partitura, trascritta in un enneagramma.

L’enneagramma è una figura formata da un cerchio che include un triangolo equilatero intersecante una figura a sei lati. I punti che toccano il cerchio sono collegati da linee e frecce in entrambe le figure interne. Un sistema introdotto per la prima volta in Occidente dal mistico e filosofo armeno-greco Georges Ivanovich Gurdjieff intorno al 1913. Gurdjieff lo utilizzava per descrivere l’ordine cosmico dell’universo e per trovare equilibrio nei differenti lati della natura umana. Il suo intento era risvegliare l’uomo a uno stato di coscienza superiore, renderlo consapevole della sua personalità meccanica e attivare la sua parte più essenziale.

Nell’installazione di Arutiunian la partitura è scritta in un enneagramma: si tratta quindi di una partitura aperta (per pianoforte con accordatura differente rispetto alla tradizione musicale occidentale) indefinita nella durata: gli esecutori sono chiamati a trovare proprie strade all’interno delle regole musicali.
La versione presente nel vinile la potete ascoltare cliccando qui.

Si torna ancora una volta al concetto di musica e identità, presente anche nell’installazione di Sonia Boyce al Padiglione Gran Bretagna. Ancora una volta la dimostrazione di come e di quanto la musica sia un forte mezzo di affermazione della nostra identità. La Sociologia della Musica ha studiato come l’esperienza musicale svolga un ruolo importante nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive, nel raccontare chi siamo.

La cosmologia del Padiglione Gharīb ruota attorno alle modalità del dissenso sonoro, delle conoscenze vernacolari e dei sistemi disordinati di elusività. Canzoni di origine illecita, altri sistemi di accordatura, estrazione del petrolio e Cher con i suoi trucchi di autotuning, l’armonica legge del sette e i sistemi divini di digestione di Gurdjieff. Emerge una certa partitura musicale, punteggiata dalle voci sommesse del non sentito, dello scomparso e del radicale.

Andrius Arutiunian

Padiglione Francia – I sogni non hanno titolo

Dopo Armenia e Gran Bretagna, la musica è protagonista anche del Padiglione Francia, premiato con una menzione speciale. L’artista franco-algerina Zineb Sedira propone Les rêves n’ont pas de titre (I sogni non hanno titolo), un lavoro che trasforma il padiglione francese in un ensamble di set cinematografici.

All’origine dell’installazione cinematografica immersiva c’è il desiderio di lavorare con la musica, la letteratura e il cinema militante degli anni Sessanta e Settanta. Un periodo di fermento politico e culturale segnato dall’emergere delle prime co-produzioni tra Algeria, Italia e Francia.

Il Padiglione si trasforma in uno studio cinematografico e in una sala di proiezione. All’ingresso, sulla destra, troviamo subito un palco pronto ad accogliere una band; al centro un tipico bar parigino (ispirato al film Ballando, ballando di Ettore Scola), dove ci si può accomodare al bancone o sui tavolini in stile bistrot per sorseggiare un bicchiere di vino rosso, mentre una coppia di performer mettono in scena un tango passionale che segna l’inizio e la fine di un’effimera storia d’amore. A seguire la ricostruzione di un tipico salottino anni Cinquanta parla dell’intimità e del senso di protezione dell’ambiente domestico, arricchito da cimeli e poster dal sapore vintage, in cui campeggia tantissima musica.

Un’installazione immersiva che invita lo spettatore a danzare, a danzare per resistere, danzare per rinascere, danzare per sognare…. E i suoi sogni non hanno titolo.

Un pesce che suona la chitarra e la balena di Moby Dick

Tanta musica alla Biennale, talmente tanta da campeggiare addirittura sulla fotografatissima facciata del Padiglione Centrale dei Giardini. Qui troviamo le sculture di Cosima von Bonin (classe 1962, Kenya): squali e pesci di plastica che brandiscono chitarre elettriche, ukulele, sarong, tavole da surf, missili imbottiti con un tessuto a quadretti.

Dietro le colonne della facciata si trova Scallops (Glass Version), una coppia di capesante su un’altalena ed Hermit Crab (Glass Version), un paio di paffute chele di granchio avvinghiate a una betoniera. Giocando con questioni d’attualità quali il capitale, il tempo libero, il comfort e la prestazione individuale, von Bonin ironizza sui vezzi dell’arte contemporanea e della storia dell’arte, in modo particolare le leggendarie origini del readymade.

© Photos Haupt & Binder, Universes in Universe

Spostandoci all’Arsenale accanto all’ingresso del – bellissimo – Padiglione Italia, la musica si fa trovare ancora presente, ci attira sotto le capriate alte quasi 25 metri delle Gaggiandre, uno degli angoli magici dell’Arsenale.

La fonte sonora è l’installazione video e audio di Wu Tsang (classe 1982, USA) dal titolo Of Whales (2022). Uno schermo di 16 metri in cui viene proiettato un adattamento cinematografico del capolavoro di Herman Melville Moby Dick e ambienti oceanici psichedelici generati mediante tecnologie di realtà estesa (XR). La durata totale è di 6 ore. Lasciarsi avvolgere dalla musica e immersi da immagini psichedeliche che si specchiano sulle acque di queste due imponenti tettoie realizzate tra il 1568 e il 1573, è quasi magia.

Il mio viaggio nella musica della 59a Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia termina qui.
Mi è sfuggito qualcosa? Scrivetemi nei commenti!

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Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 1)

british pavillion biennale 2022

Una visita alla Biennale Arte vale sempre il viaggio. Specialmente in un’edizione in cui a vincere il prestigioso Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale è un padiglione immerso di musica. Suona strano? La Musica è Arte, e forse questo viene troppo spesso dimenticato.

Il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla 59 Biennale di Venezia è stato vinto dal Padiglione Gran Bretagna firmato Sonia Boyce. “Feeling Her Way” avvolge il visitatore in un collage dinamico di suoni e immagini, rinfrangendo e trasfigurando identità, storie e futuri. Un’opera immersiva e sonora. Un enorme studio di registrazione.

Esplorare nuovi spazi sonori

“Feeling Her Way” è una vibrante installazione incentrata sulle performance vocali di quattro musiciste. Attraverso una serie di video con filtro colore diverso, incontriamo quattro cantanti britanniche Black dalle voci straordinarie: Jacqui Dankwort, Poppy Ajudha, Sofia Jernberg Tanita Tikaram ed Errolyn Wallen. Sono state riprese in diretta mentre improvvisavano insieme per la prima volta ai microfoni di uno dei più importanti studi di registrazione del mondo: gli Abbey Road Studios di Londra.

British Pavilion, Room 1 – Image Cristiano Corte © British Council

Le quattro voci si fondono l’una nell’altra esplorando nuovi spazi sonori immaginandosi sotto forma di oggetti e animali.  Si abbandonano a un processo creativo non immune da errori e dissonanze, se non addirittura vere e proprie cacofonie. Le imperfezioni e i contrasti sono visti come espressioni della creatività e della vita reale.

L’interesse di Sonia Boyce è osservare il modo in cui rispondiamo, come impariamo, come ascoltiamo, come assistiamo allo sviluppo dei rapporti con gli altri.

Ciò che desidero nel farvi incontrare è indagare come possiate sentirvi liberi. Che tipo di condizioni vi servono per sentirvi liberi di esprimere voi stessi quando noi siete limitati da ciò che gli altri pensano che dovreste o potreste essere? Cosa significa essere liberi… e come potreste comportarvi?

Sonia Boyce

E il mezzo con cui Boyce ha voluto realizzare questa riflessione è la Musica.

Musica è identità, improvvisazione è libertà

La musica che è un forte mezzo di affermazione della nostra identità. La Sociologia della Musica ha studiato come l’esperienza musicale svolga un ruolo importante nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive, nel raccontare chi siamo.

L’improvvisazione musicale viene qui studiata da Sonia Boyce come un’opportunità per la libera espressione tra musicisti, e un invito al pubblico per riflettere su quanto la voce possa rivelare della nostra identità. Sono vocalizzi senza parole, puri suoni improvvisati con immaginazione e giocosità; una musica che sovverte le dinamiche interpersonali. I nostri istinti per la musica sono radicati nell’infanzia dell’umanità, le forme musicali che erano disponibili agli uomini primitivi (la voce e il corpo) esercitano ancora oggi un’influenza primaria inevitabile.

Una tangibile dimostrazione di come la musica riesce a ridurre la distanza tra le persone, anche solo attraverso il suono di una voce.

L’oro degli stolti

Un’ultima curiosità. Le pareti di tutte le cinque stanze del Padiglione Britannico sono rivestite da carta da parati a incastro a creare un legame continuo tra le varie sale. Si incontrano anche molti oggetti geometrici dorati che fanno riferimento alla pirite, forme cristalline uniche che si producono in tutto il mondo. Eppure, la pirite è chiamata “l’oro degli stolti”. Boyce in un modo molto sottile solleva un importante interrogativo: l’abitudine di giudicare attraverso un confronto in chiave negativa.

British Pavilion, Room 4 – Image Cristiano Corte © British Council

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Beethoven e Kandinskij: la Quinta Sinfonia in due linguaggi differenti

Musica e pittura: due arti che utilizzano due linguaggi espressivi differenti, legate tra loro da un rapporto profondo. Un binomio quasi magico che nel corso della storia ha sviluppato tantissime teorie, diverse tra loro, che legano insieme note e colori per il loro significato simbolico, filosofico, psicofisico o armonico.

Vassilly Kandinskij, tra i pittori più conosciuti e importanti del Novecento, oltre ad essere il fondatore della pittura astratta, fu il pioniere dello studio della sinestesia tra suono e colore. Imprescindibile il testo “Lo spirituale nell’arte” (1910) in cui viene alla luce la complessità del suo progetto artistico e la riflessione sui rapporti fra musica e pittura.

In generale il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima il pianoforte dalle molte corde. L’artista è una mano che toccando questo o quel tasto mette in vibrazione l’anima umana.

Vassilly Kandinskij da “Lo spirituale nell’arte”

L’ESPRESSIONE GRAFICA DELLA MUSICA

Un testo forse meno conosciuto, ma altrettanto importante, è l’opera “Punto, linea, superficie” (Punkt und Linie zu Fläche), pubblicata nel 1926,  che ebbe un’influenza determinante in diversi campi, basti pensare alla grafica. Per Kandinskij la forma, che sia naturale o artificiale, è manifestazione significante di una realtà. Kandinskij ci insegna ad “ascoltare” la forma mettendoci in un nuovo rapporto con l’opera d’arte: apre a nuove possibilità, nuove letture, nuovi significati: “la possibilità di entrare nell’opera, diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi”.

Ecco che una musica può diventare colori, linee e punti; ma anche colori, linee e punti possono diventare musica. Un suono lungo, ad esempio, potrebbe essere raffigurato con una linea, mentre un suono breve attraverso un punto.

Kandinskij propone la traduzione grafica di alcune battute della “Quinta Sinfonia” di Beethoven (la Sinfonia n. 5 in Do minore Op. 67), dando così forma grafia alle note e alle melodie create dal celebre compositore.

Le prime battute d’apertura (il famoso motivo di quattro note che rappresenta “il destino che bussa alla porta”) per Kandinskij diventano una successione di punti, più o meno grandi, posizionati ad una determinata distanza, in modo da rendere ritmo e durata delle note. La linea melodica viene resa con una linea che sale, scende, diventa più spessa, per trasmettere le stesse tensioni musicali.

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Il secondo tema (in versione grafica e audio)


Una linea per Kandinskij può comunicare sensazioni e movimento: la linea verticale esprime elevazione, tensione spirituale, quella orizzontale quiete. Le linee ondulate esprimono armonia e le spezzate asprezza ed energia.

Due modi di esprimere la propria arte differenti, Beethoven in musica e Kandinskij in pittura, vengono così tradotti in due linguaggi diversi, ma uniti negli intenti. Una musica può essere trasformata in punti, linee e colori, ma avreste mai pensato di poter “cantare” un quadro?

Kandinskij “Diagramma 17” (dal testo “Punto, linea, superficie”)

Per approfondimenti:
“La corda di Aries. Dall’espressionismo musicale alla psichedelia” di Fausto Bisantis, in particolare il capitolo: “Kandinsky, Schonberg e la dodecafonia”

Se il rapporto tra musica e arte ti interessa, scopri il corso che ho realizzato sulla musica nascosta negli affreschi della Padova di Giotto. Ti stupirà! Clicca qui.

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John Sheperd e la musica per gli alieni

Creare un contatto, un punto di incontro, condividere un messaggio. La musica può essere un vero e proprio strumento di comunicazione con le sue geometrie, i suoi rapporti matematici. Ripetizioni e formule, armonia e melodia.

John Sheperd ha dedicato gran parte della sua vita nel dimostrare che “la musica è un linguaggio universale”. Un animo sensibile, una sorta di eroe romantico dei nostri tempi. Anno dopo anno, dando fondo a tutti i suoi risparmi, John Shepard ha costruito un vero e proprio laboratorio da scienziato pazzo con tanto di apparecchi tecnologici, trasmettitori e computer all’avanguardia. Tutto questo per trasmettere musica verso l’ignoto, oltre il nostro sistema solare, nella speranza che lassù, qualcuno, potesse ricevere quel segnale e risponderci.

Musica di tutti i generi, soprattutto elettronica ed esotica (la cosiddetta World Music), predilette probabilmente perché più matematica e quantizzata la prima, quanto tribale e legata all’istinto primario della vita la seconda.

Dal 20 agosto, “John e la musica per gli alieni”, il breve corto-documentario della sua storia diretto da Matthew Killip, è disponibile su Netflix (link).


Il sogno di un folle?

Seppur possa essere considerato il “sogno di un folle”, l’impresa di John Sheperd non può che farci riflettere sul potere comunicativo della musica. Abbiamo già approfondito in precedenza le contraddizioni e i vicoli ciechi riguardo al tema “la musica è un linguaggio universale” e questa storia offre ulteriori spunti di riflessione tanto da ricordare e rievocare la celebre scena di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg. Il grido di un uomo alla ricerca di qualcuno che possa portarlo a un livello superiore, anche solo un bisogno di essere ascoltato e capito.

Probabilmente il vero alieno è proprio lui, John Sheperd, una persona di sicuro particolare, così diversa dall’uomo comune delle campagne del Michigan, un visionario figlio dei fiori, omosessuale, con un’ossessione di raggiungere qualcuno che a noi è invisibile.

Tutto questo può portarci a riflettere su quale musica sia la più adatta ad essere fruita e compresa da una cultura così lontana dalla nostra.

Innanzitutto, la base di ogni fenomeno è il movimento, la dinamicità, il ritmo. Una cultura lontana dovrà condividere con noi una percezione del ritmo. Senza questo ogni comunicazione non sarebbe possibile, che sia verbale, scritta o musicale. Su questa base è possibile l’elaborazione di un codice a partire dalle frequenze e dai rapporti matematici costruiti attorno ad esse.

Ma non è proprio quello che è successo con il nostro modo di percepire e vivere la musica? Dai canti tribali alla dodecafonia la storia della Musica è la storia di un linguaggio che si è evoluto da semplici e primordiali percussioni ad elaborate sequenze concettuali. Per una cultura come la nostra, egocentrica e globalizzata, è difficile pensare ad un concetto di linguaggio universale della musica a livello oggettivo.

Probabilmente con esseri diversi da noi sarebbe ancora più complicato, in quanto anche gli archetipi presenti nel profondo di ogni istinto umano verrebbero meno. Tuttavia, la poetica della fantascienza ci apre le porte a una spinta verso nuovi orizzonti, al vedere e capire il mondo non più attraverso i nostri occhi, ma cercando di raggiungere una nuova comprensione grazie al diverso. E in questo mondo c’è bisogno di persone disposte a realizzare i propri sogni, persone capaci di mettere in discussione le contraddizioni dei nostri tempi, persone come John Sheperd.

Leggi anche:
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Il suono dello spazio, un concerto di elettroni
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1

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La musica potrebbe essere un linguaggio universale – I suoni binaurali

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Esistono domande scomode, quasi proibite. Spesso ci si concentra sul dettaglio tralasciando la forza primigenia, l’archè (ἀρχή), per dirla con un termine caro alla filosofia greca. Il musicologo, come un moderno Socrate, deve utilizzare tutta la sua energia maieutica per rispondere alla grande domanda: “Che cos’è la musica?”

Il tema è complesso e il lavoro di musicologica ruota attorno a questo concetto fin dalle sue origini.

Quello che la maggior parte delle persone intende come musica è in realtà una piccola percentuale di quello che la Musica è. La forza della Musica si propaga nella cultura, nella geometria, nelle arti e anche nelle scienze.

Per identificare la Musica come un linguaggio universale dovremmo riuscire a separarla dal concetto che ne abbiamo nella cultura e scoprirla attraverso altre angolazioni. Un linguaggio universale deve, per definizione, funzionare, essere compreso, allo stesso modo per ogni uomo, indiscriminatamente, al di là di ogni luogo di origine, epoca e cultura. La musica “occidentale” è un codice “occidentale” e, nonostante la globalizzazione abbia avvicinato le diverse culture, alcune differenze permangono e persistono.

La musica indiana, in ere antiche, ha avuto un’intuizione per cerca di creare un linguaggio musicale universale (ne ho parlato qui).  Un campo di studi molto più recente e che, in futuro, potrebbe portare a risultati interessanti riguarda i cosiddetti suoni binaurali.


I suoni binaturali

Il concetto si collega direttamente al fenomeno dei battimenti, un’interessante effetto vibratorio scoperto dalla Fisica acustica. Il battimento si genera quando un’oscillazione vibratoria di un corpo che produce un suono si scontra con un’oscillazione vibratoria di un altro suono di frequenza diversa ma vicina. Vengono a crearsi contemporaneamente due sinusoidi che, interagendo e sovrapponendosi tra loro, portano l’orecchio a percepire “note” aggiuntive, diverse dalle due vibrazioni d’origine

Nel caso dei suoni binaurali l’effetto è ancora più sorprendente perché è previsto l’utilizzo di auricolari, in modo da poter ascoltare due suoni di frequenza diversa da un orecchio all’altro. Per esempio, immaginiamo che nell’orecchio destro venga fatto pulsare un suono a 195 Hz, mentre nell’orecchio sinistro un suono a 190 Hz. Il nostro cervello cercherà automaticamente di compensare la differenza portando la propria frequenza cerebrale a 5 Hz

Il fenomeno venne scoperto per la prima volta nel 1839 dallo scienziato prussiano Heinrich Wilhelm Dove, ma la sua applicazione ed efficacia è ancora in fase di studio. Molto considerato dalla cultura New Age per la sua non ancora dimostrata capacità di favorire stati meditativi, il fenomeno dei suoni binaurali potrebbe essere un nuovo e rivoluzionario strumento per applicazioni mediche e terapeutiche.

Una musica “diversa”, certamente lontana dalla nostra concezione di musica occidentale legata più allo svago e all’evasione.

Leggi anche:
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

La musica potrebbe essere un linguaggio universale – L’esperimento indiano
Vedere l’armonia: il suono si fa forma

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La musica potrebbe essere un linguaggio universale – L’esperimento indiano

Sull’universalità della musica se ne è parlato tanto e ne ho già scritto anche qui in due precedenti articoli (La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1 e La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2); molti studiosi di musica hanno analizzato a fondo il discorso cercando di trovare la soluzione ultima alla questione.

La pietra filosofale necessita tuttavia di numerose ricerche e di cambi di prospettiva nella nostra missione alchemica. È chiaro che la musica, per come la intendiamo noi occidentali, non può essere un linguaggio universale. Non possiamo pretendere che i pigmei “capiscano” Stravinskij o che i canti tribali degli aborigeni australiani possano essere pienamente compresi ascoltandoli nelle comode poltroncine rosse dei nostri teatri.

I contesti, la concezione, la cultura sono diversi e possiamo non possedere gli strumenti intellettuali per decodificare il messaggio. Ma è sempre così? Sì, a meno che non si cominci da zero e si cerchi di re-codificare il linguaggio e tramutarlo in una sorta di “esperanto” musicale, un linguaggio che sia talmente radicato nella nostra essenza umana da trascendere la cultura di appartenenza.

Il caso della musica classica indiana

Molto affascinante è il caso della musica classica indiana, o perlomeno della sua origine. Nel corso della sua storia l’India si è distinta, più che per un progresso a livello tecnologico, per un interesse e un’affinità con il mondo spirituale. Dalla medicina alla cucina, dall’attività motoria all’attività sessuale: tutto nell’antica India è stato visto come un possibile collegamento, un ponte, per una crescita interiore. Anche la musica.

Una prima caratteristica fondamentale della musica classica indiana, che la differenzia molto dalla nostra, è che non ci sono progressioni di accordi. Provate ad ascoltare l’esecuzione di un raga di Ravi Shankar e sentirete che tutto il messaggio musicale si muove all’interno di un unico bordone, un bicordo formato da tonica e quinta giusta e relative ottave (eseguito dalla tampura, strumento affascinante e magico che ci catapulta già dal primo arpeggio in un tempio nel Bengala).


Il contesto armonico è fisso, stabile, non si scosta da questo centro di gravità permanente per dirla con le parole di un altro grande saggio armeno (e già, non sono di Battiato, se siete interessati ne ho parlato qui). Questa è una grandissima differenza rispetto alla nostra musica di stampo occidentale. L’armonia porta ad atmosfere meravigliose, a cambiamenti di umore che sono stati codificati e intellettualizzati nel corso dei secoli dalla nostra cultura, ma che possono essere molto soggettivi. Per arrivare a un linguaggio universale dobbiamo spogliare il nostro codice da qualsiasi orpello e puntare all’essenza.

La seconda grande intuizione indiana è assegnare un significato (emotivo, magico o spirituale) a ciascun intervallo musicale. Proviamo a confrontare la tonica con la propria seconda minore. La sensazione è sgradevole, carica di tensione, tutta un’altra cosa rispetto al rapporto tonica e quinta giusta, un intervallo perfetto nella sua consonanza. La terza minore piange, esprime tristezza al contrario della gioia della terza maggiore.

Questo possiamo dirlo con una certa oggettività: mentre chiunque di noi può intuire e confermare queste sensazioni in maniera automatica basandosi sull’ascolto; gli studiosi dell’India sono andati oltre, codificando questo linguaggio e utilizzandolo come base di partenza per costruire qualcosa di nuovo.

Leonard Bernstein spiega gli intervalli


Per ogni intervallo musicale gli antichi studiosi della musica indiana hanno rilevato una funzione, un carattere determinato quasi con rigore scientifico, come tensione o risoluzione per dirla in termini occidentali. Su questo è stato costruito un sistema fondato più sulle scale e non tanto sull’armonia e sulla melodia come noi occidentali siamo portati a ragionare. La nota della scala indiana è stata studiata per uno scopo, per ottenere un effetto e così la concatenazione dei diversi intervalli tra loro. Ecco la grande quantità delle scale indiane che sono state raccolte per la loro funzione piuttosto che per la loro effettiva piacevolezza dell’ascolto.

Un sistema totalmente diverso dal nostro, evoluto in una sua precisa direzione e ci porta a riflettere sulla grandezza e sulla magia della musica nella sua diversità e universalità.


Leggi anche:
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

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La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

La Musica è un linguaggio universale? Aggiungo altri spunti di riflessione su questo articolato e complicato argomento. Nell’articolo precedente ho accennato agli studi di Etnomusicologia, disciplina molto affascinante e i cui studi aprono interi universi sonori totalmente alieni a noi occidentali. Ma anche restando all’interno della nostra Europa ci possono essere musiche di cui non conosciamo il codice comunicativo e che non capiamo, fraintendiamo e che alle volte non riusciamo nemmeno a concepire come musica. Schönberg ad esempio:


Al nostro orecchio suona sicuramente più familiare rispetto al canto della tribù del Congo di cui si parlava, ma non credo sia di facile comprensione… e cambiando decisamente registro:

Per il nostro retaggio culturale una musica Rock molto distorta come questa e il genere Black Metal viene automaticamente associato a qualcosa di negativo, ma non è sempre così. Gli Horde infatti possono essere considerati una band “cristiana” (esiste anche una corrente chiamata White Metal o Christian Metal) e hanno causato polemiche e sconcerto all’interno della scena Black Metal proprio perché potatori di testi a favore del Cristianesimo in netta antitesi con i dettami del movimento.

Questi sono degli esempi che portano all’estremo la Classica e il Rock, ma anche restando all’interno del Pop più tradizionale vi sono casi di eclatanti fraintendimenti. Un esempio è “Every Breath You Take” il brano dei Police che nel 1983 raggiunse la vetta delle classifiche mondiali. Suona come una confortante canzone d’amore, in realtà il significato lo ha spiegato proprio Sting: «È una canzone cupa che parla di controllo, gelosia, sorveglianza, ma c’è chi crede che sia un brano romantico e vorrebbe usarla al proprio matrimonio.»
Il testo recita così: “Ogni movimento che fai, ogni promessa che rompi, ogni sorriso che fingi, ogni barriera che innalzi, io starò a guardarti”. Anche una dolce melodia può portare messaggi oscuri.

Un altro caso interessante è “Born in U.S.A” del Bruce Springsteen che racconta con parole feroci e piene di rabbia la triste vicenda di un reduce del Vietnam. Il famosissimo ritornello urlato a squarciagola dal Boss è ormai un inno al patriottismo americano, mal interpretato anche dall’allora presidente Ronald Reagan che disse ad un comizio: «Il futuro dell’America resta nel messaggio di speranza che si trova nelle canzoni di un uomo ammirato da tanti giovani americani: Bruce Springsteen del New Jersey».

Come si diceva ad inizio articolo, la musica sovverte le regole della comunicazione: l’ascoltatore può conoscere il codice con cui è stato composto il brano e a decifrare correttamente il messaggio del compositore, però può anche non conoscerlo e interpretarlo in maniera non corretta o non riuscirci affatto. E può succede anche restando all’interno di una cultura e di un linguaggio condiviso.

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La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1

In un precedente articolo in cui analizzavo la Musica come mezzo di comunicazione, concludevo con una domanda: “La musica è un linguaggio universale?”. La risposta spontanea è un “sì” convinto: la musica viene spesso definita come il collante dell’umanità, qualcosa che ci unisce tutti e permette di comunicare e veicolare messaggi superando barriere linguistiche e culturali.

“La Musica è il linguaggio magico del sentimento” è una delle mie citazioni preferite che esprime l’idea romantica e la potenza comunicativa di questa forma d’arte, e che condivido. Anche se è un ragionamento alle volte semplicistico che si basa sulla visione eurocentrica (o occidentale in generale) che abbiamo del mondo.

  • Se per “linguaggio universale” intendiamo l’universale come qualcosa che è presente in tutte le culture l’affermazione è vera in quanto una forma di espressione umana basata su produzioni sonore esiste in ogni civiltà. Anzi, non esistono culture senza musica come spiegavo in questo articolo citando gli studi di John Sloboda.
  • Se invece come “linguaggio universale” intendiamo una lingua comprensibile a tutti, un mezzo che permette di comunicare scavalcando barriere linguistiche e culturali la questione si fa più complessa.

Nel precedente articolo “Musica, comunicazione e linguaggio” era emerso come la musica sovverta le regole della comunicazione secondo cui il mittente e il ricevente (il compositore e l’ascoltatore nel nostro caso) devono condividere il codice con cui è costruito il messaggio (il brano musicale). Nell’esperienza musicale il ricevente ha un ruolo attivo e indipendente dal mittente: l’ascoltatore può conoscere il “codice” e riuscire a decifrare correttamente il messaggio del compositore, però può anche interpretarlo in maniera non corretta o non riuscirci affatto.

Da queste basi molto teoriche cerco di passare ad esempi più pratici chiamando in aiuto l’Etnomusicologia, la disciplina che studia le musiche del mondo. La musica è un fenomeno complesso ed è portatrice di significati e valori che variano da cultura a cultura: ad esempio la musica strumentale del ‘700 europeo è molto differente rispetto a quella suonata in un villaggio Maori, è quasi “altro”. L’Etnomusicologia si interessa alle musiche relativamente al loro contesto, sia di produzione sia di ricezione, come espressione culturale: deve essere conosciuto il contesto per coglierne il significato.

Come per la parola, come i diversi linguaggi, la musica adopera codici e sistemi musicali diversi a seconda delle culture, comprensibili solamente a chi ha appreso quel particolare linguaggio e incomprensibili a chi non lo conosce.

Ad esempio, cosa siamo in grado di capire da questo ascolto?


Comprensione testuale a parte, è un canto propedeutico alla caccia, un canto rituale per un matrimonio, oppure per un funerale? Bisogna conoscere il contesto e la cultura di questo popolo per coglierne il significato.

Ad esempio, i pigmei Mbenzélé che vivono nella foresta pluviale del Congo considerano le emozioni negative come un disturbo all’armonia della foresta e per questo considerate pericolose. Per la loro cultura la musica ha la funzione di scacciare le emozioni negative: quando un bambino piange, se gli uomini hanno paura di andare a caccia o durante un funerale cantano una musica che possiamo definire “allegra”. E un pigmeo del Congo cosa riuscirebbe a capire seduto in un palchetto de La Scala alla prima della Tosca o tra il pogo di un concerto Rock?

L’Etnomusicologia è una disciplina molto affascinante e i suoi studi aprono interi universi sonori totalmente alieni a noi occidentali. Questi sono solo piccoli spunti per un inizio di riflessione sull’argomento. La questione sull’esistenza o meno degli “universali” in musica è una domanda al limite della metafisica, su cui si discute ancora e che si sono posti molti etnomusicologi. Anche perché bisognerebbe definire quanto “universali” debbano essere gli “universali” per potersi considerare tali.

Una delle teorie più interessanti a riguardo è quella proposta dal filosofo e mistico armeno Georges Ivanovitch Gurdjieff (1877-1949). Secondo Gurdjieff esiste una “musica oggettiva” capace di esercitare effetti precisi e voluti a tutti gli ascoltatori, indipendentemente dalla cultura e dal gusto personale.


Sono studi che si basano su precisi rapporti fra sequenze sonore: particolari stimoli acustici incorporati in un segnale musicale possono generare le stesse risposte emotive. Un semplice esempio: un ritmo incalzante aumenta il battito cardiaco, mentre un andamento lento ha un effetto generalmente calmante.

Concludo con le parole del sociologo Marcello Sorce Keller nel suo saggio “Musica come rappresentazione”, secondo cui la pretesa universalità del fenomeno musicale non risiede nel fatto che le sue manifestazioni locali siano sempre universalmente comprensibili e apprezzabili anche da chi le vive come esterne dalla propria cultura. La musica è da intendersi come fenomeno universale nel senso che ovunque essa si manifesta ha una forte capacità di caratterizzare i gruppi umani. Ogni singola performance articola ed esprime i valori di uno specifico gruppo sociale.

Nessuna performance è mai concepita, alla nascita, per avere un valore universale. La musica è, al contrario, una celebrazione del “localismo” delle genti. Per questo gli etnomusicologi parlano di “musiche” al plurale.

Marcello Sorce Keller

Le musiche sono infatti tutte radicate e ancorate ad un determinato tempo, luogo, vissuto storico e contesto culturale. Continua Sorce Keller: «è molto difficile per chi ascolti musica classica indiana o il gamelan balinese nel proprio appartamento a Milano, con l’aiuto di un riproduttore CD, intuire quale senso queste musiche potessero avere nel contesto in cui nacquero e nell’occasione-funzione per cui erano state pensate. Ma non importa (o, per lo meno, importa fino ad un certo punto). Rimane il fatto straordinario che noi si sia diventati tanto attivi nella nostra capacità di ascoltare, tanto creativi, da imputare a quelle forme sonore che provengono da lontano, nello spazio e nel tempo, un “senso” nostro, risultato della nostra creatività e in quanto ascoltatori che è congruo alle esigenze del nostro vivere da occidentali».

Gamelan Balinese
logica

Che cos’è la musica?

Che cos’è la Musica? Una risposta potrebbe essere… 42!
Proprio come nel libro “Guida galattica per autostoppisti” di Douglas Adams, dove l’unico modo per rispondere alla “domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto” è attraverso il surreale, il nonsense, il paradosso.

“Questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda.”

Uno sberleffo di trascendenza che va oltre la domanda con ironia, l’unica possibile risposta ad una domanda che “una” risposta non la può avere.

Musicologica è un punto di partenza dopo sette milioni e mezzo di “pensieri profondi”. Amo la musica da sempre. Mi ha affascinato per il suo essere impalpabile, invisibile, eppure così presente come ossigeno nell’aria da non poterne fare a meno. Perché? Lo dovevo capire. E così dopo aver divorato dischi e riviste ho cercato la risposta nella dotta Università di Padova, prima con la laurea triennale in Discipline dell’Arte della Musica e dello Spettacolo e poi con la specialistica in Musicologia e Beni Musicali.
Alla prima lezione del primo corso è stato presentato uno dei testi d’esame: “Che cos’è la musica?” di Carl Dahlaus e Hans Heinrich Eggebrecht. Ero nel posto giusto! Il primo passo verso un mondo che racchiude infiniti universi al suo interno. Uno dei miei libri preferiti.

Che cos’è la Musica? La classica risposta è “la colonna sonora della vita” e poi ossigeno, condivisione, divertimento, svago, compagna di viaggio… Per alcuni la Musica è un lavoro, per altri un linguaggio per costruire nuovi mondi, molti invece a questa domanda non hanno mai pensato.

Una definizione in senso stretto non esiste, perché non esiste “la” musica. È un concetto che anche solo storicamente nella tradizione culturale occidentale è cambiato spesso dall’antichità ai giorni nostri. Pitagora associava la musica a rapporti numerici in cui si manifestava l’armonia dell’universo, per Sant’Agostino era una “scientia bene mondulandi” mentre all’inizio dell’età moderna la pratica musicale rimandava alla sfera delle emozioni; passando per il razionalismo del Settecento e l’irrazionalismo Romantico si arriva alla concezione moderna di linguaggio che dà forma a pensieri musicali.

“La musica non dovrebbe essere solo un idromassaggio per il corpo, uno psicogramma sonoro, un percorso mentale in suoni, ma soprattutto flusso diventato suono della ipercosciente elettricità cosmica”

Karlheinz Stockhausen

Ecco il perché di Musicologica (musica + logica) per cercare di incuriosire, porre le giuste domande e andare alla scoperta della Musica nella sua essenza. Parlare di musica è parlare della società di oggi, del suo rapporto imprescindibile con il pubblico e della loro evoluzione nella storia. Parlare di Musica è parlare di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso. È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di ascoltare, osservare, imparare: audio, video, disco.

“Parlare di musica è come ballare di architettura” diceva Frank Zappa.
E allora si dia inizio alle danze!