È stata premiata come la migliore canzone italiana del 1997. Singolo di lancio dell’album “La morte dei miracoli”, “Quelli che benpensano” è stato un grandissimo successo di Frankie Hi-Nrg che ha conquistato pubblico, radio e le televisioni musicali.
“Quelli che benpensano” è stata definita una canzone d’autore declinata con le moderne sonorità dell’hip hop. È una canzone di denuncia, politica e sociale, specchio tagliente di quell’Italia di arrampicatori sociali senza scrupoli e senza morale. Figli del consumismo ossessivo ed eccentrico (Vivon col timore di poter sembrare poveri / Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano) avvolti al perbenismo dilagante in una competizione per soldi e successo (L’imperativo è vincere / E non far partecipare nessun altro).
L’ironia del grande successo commerciale di “Quelli che benpensano” è essere finita tra i brani preferiti proprio di chi Frankie Hi-Nrg stava denunciando: “Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi”. Un successo nato da un testo d’autore unito ad una musica accattivante, un motivetto che si memorizza subito fin dal primo ascolto e che nasconde un “segreto”.
La base musicale di “Quelli che benpensano” è stata campionata dall’incipit del brano “Dawn Comes Alone” cantata nel 1968 da Nicole Croisille, colonna sonora del film francese “Les jeunes loups” per la regia di Marcel Carné uscito nello stesso anno. Una scoperta recente raccontata in un’intervista del 2015 proprio dal rapper Ice One, produttore di “Quelli che benpensano”:
A distanza di quasi vent’anni, per farti un esempio, un ragazzo ha beccato il campionamento di “Quelli che benpensano” (Nicole Croisille – “Dawn Comes Alone”). Era il lato B di una colonna sonora, trovata pescando per caso in un mercatino (ride, ndr.).
Ice One
Ma non solo. L’intro di “Dawn Comes Alone” è stato campionato e a sua volta arrangiato unendo un altro campionamento: un frammento di un assolo di trombacontenuto nel brano “Blue Juice” di Jimmy McGriff (curiosamente sempre del 1968). Lo potete ascoltare cliccando qui al minuto 1 e 57 secondi.
“Quelli che benpensano” ha fatto storia, a partire dal videoclip ispirato al film “Il tassinaro” di Alberto Sordi. La regia è dello stesso Frankie Hi-Nrg e Riccardo Sinigallia (la voce del ritornello), si svolge tutto all’interno di un taxi che gira per le strade di Roma e accoglie diversi clienti, tutte le diverse tipologie di persone che sta raccontando il testo della canzone.
A poco più di vent’anni di distanza il rapper Marracash ha realizzato una rivisitazione del pezzo pubblicata nel suo album “Persona” (2019) con il titolo “Quelli che non pensano” in collaborazione con Coez. Un aggiornamento sull’evoluzione della società: “Siamo passati da quelli che ben pensano a quelli che non pensano” annuncia il primo verso della canzone. Marracash racconta un’involuzione dell’individuo che dal “ben pensiero” perbenista anni ’90 è passato al “non pensiero” del 2020. Impegnato oggi a costruirsi una vita apparente e vuota da esibire sui social a caccia di like: “Stiamo cadendo col mondo in mano / Più a fondo vado e più capisco che (Quelli che non pensano) / Se penso al fondo, l’ho già superato / E ancora scavo e tu sei come me”.
Toccare il testo di Frankie Hi-Nrg è un compito delicato. È la prima volta che viene modificato, anche se molte sono state le cover di “Quelli che benpensano” da Fiorella Mannonia a Caparezza fino ai tempi del Coronavirus che ha portato il remix di Vincenzo De Luca. In una parodia realizzata da DJ Stile il volto del governatore della Campania, grazie ad un abile montaggio, sostituisce quello di Frankie Hi Nrg alla guida del taxi del videoclip originale e “canta” alcune parti dei suoi famosi discorsi. Uno dei successi virali impazzati sul web ai tempi della quarantena: qui il link.
“All Along the Watchtower” è una delle canzoni più note di Jimi Hendrix, anche se è nata dal genio di Bob Dylan; due grandi e immortali nomi incisi nella storia della musica.
A scriverla è stato Bob Dylan, pubblicata nel 1967 nell’album “John Wesley Harding”. Era il primo lavoro dopo l’incidente in moto che lo aveva costretto ad una lunga pausa. Un nuovo inizio di carriera che lo ha visto tornare alla ruvida essenzialità acustica degli esordi: solo chitarra, armonica e voce.
A renderla immortale è stato Jimi Hendrix, con una cover psichedelica talmente potente e incendiaria da offuscare l’originale di Dylan. Uscita nell’album “Electric Ladyland” (1968), “All Along the Watchtower” di Hendrix si piazzò in vetta alle classifiche, inaspettatamente, vendendo più di ogni altra sua canzone precedente. Hendrix l’aveva trasformata, metabolizzata, rigenerata al punto da creare quasi un brano originale.
Una versione che piacque molto anche a Bob Dylan che in seguito nei suoi concerti la ripropose con il nuovo arrangiamento di Jimi Hendrix. Dylan è stato un punto di riferimento molto presente nell’evoluzione musicale di Hendrix:
“Tutte quelle persone a cui non piacciono le canzoni di Bob Dylan dovrebbero leggere i suoi testi. Sono piene delle gioie e della tristezza della vita. Io sono come Dylan, nessuno di noi può cantare normalmente. A volte suono le canzoni di Dylan e le trovo così simili a me che sembra quasi che le abbia scritte io.
Sentivo “Watchtower” come una canzone che avrei potuto fare io, ma sono sicuro che non l’avrei mai finita. Pensando a Dylan, credo che non sarei mai stato in grado di scrivere le parole che riesce a tirare fuori, ma vorrei che mi aiutasse, perché ho un sacco di canzoni che non riesco a finire. Metto qualche parola sul foglio e non riesco ad andare avanti. Ma ora le cose stanno migliorando, sono un po’ più sicuro di me stesso”. – JIMI HENDRIX
“All Along the Watchtower” è forse la più esoterica tra le canzoni di Dylan, un testo enigmatico con molti richiami biblici, da sembrare scritto con il libro di Isaia sottomano (pur senza rinnegare la sua origine ebraica, la Bibbia cristiana è sempre stata il testo guida di Dylan).
Tutta la canzone è giocata in chiave allegorica, le interpretazioni e i livelli di lettura sono innumerevoli; è uno dei testi più controversi di Dylan la cui efficacia compositiva nell’unire parole e musica è indiscussa, tanto da essere stato premiato con il Nobel per la Letteratura nel 2016 per aver “creato nuove espressioni poetiche all’interno della tradizione della canzone americana”.
In “All Along the Watchtower” i riferimenti storici e biblici sono così tanti ed evidenti da rendere palese la volontà di Dylan di voler celare un messaggio contemporaneo attraverso il racconto di una storia antica come la distruzione di Babilonia. È proprio Isaia a parlare di una“torre di guardia” (the watchtower) a preannunciare lacaduta di Babilonia.
“There must be some way out of here” said the joker to the thief “There’s too much confusion, I can’t get no relief. Businessmen, they drink my wine, plowmen dig my earth. None of them along the line know what any of it is worth” “Dovrebbe esserci una via d’uscita” disse il giullare al ladro, “Qui c’è troppa confusione non riesco a trovare conforto / Uomini d’affari bevono il mio vino, contadini arano la mia terra / nessuno di quelli in fila conosce il valore di tutto questo.
La prima strofa del brano presenta subito i due protagonisti, un giullare e un ladro, e sembra mettere davanti ai nostri occhi una moderna Babilonia (spesso utilizzata come sinonimo di “confusione”), piena di gente pronta ad approfittare della minima occasione.
Nelle parole del giullare c’è chi ha letto le parole di Cristo alla ricerca di una via d’uscita al Male che pervade il mondo. Uomini d’affari bevono il vino, contadini scavano la terra: forse un riferimento al sangue (il vino) e al corpo (la terra) di Cristo offerti in remissione dei peccati? Seguendo questa lettura il verso “nessuno di quelli in fila conosce il valore di tutto ciò” potrebbe descrivere i cristiani in fila per ricevere la comunione, senza capire il significato profondo di quell’azione.
“No reason to get excited”, the thief, he kindly spoke “There are many here among us who feel that life is but a joke but you and I we’ve been through that and this is not our fate so let us not talk falsely now, the hour is getting late”.
“Non ti devi preoccupare” disse gentilmente il ladro / “Sono in molti qui tra noi che hanno la sensazione che la vita sia solo un gioco / ma tu ed io siamo andati oltre e questo non è il nostro destino / così non parliamo ingiustamente adesso si sta facendo tardi”.
Nella seconda strofa il ladro risponde al giullare: se prima il giullare si lamentava che gli venisse rubato tutto, ora il ladro si lamenta di chi considera la vita solo come un gioco, uno scherzo. Si rimproverano quasi l’uno con l’altro, ma entrambi sanno che non è quello il loro destino e qualcos’altro li attende.
Seguendo la spiegazione biblica il ladro potrebbe essere il buon ladrone, al quale Gesù sulla croce annuncerà che presto sarà con lui in Paradiso; e il giullare chi invece pensa che sia tutto uno scherzo, i membri del Sinedrio e i soldati romani che schernivano Gesù.
Ma qui entra in gioco un’altra chiave di lettura: ladro e giullare potrebbero essere il Bob Dylan uomo e il Bob Dylan artista, riferimento che vale anche per Jimi Hendrix. Forse un momento di crisi dell’artista che cerca una via d’uscita dai “businessmen” e i “plowmen” che si arricchiscono alle spalle del suo lavoro e della sua bravura, che cercano di controllarlo e scavare dentro di lui. L’uomo e l’artista stanno pagando il successo a caro prezzo.
All along the watchtower, princes kept the view while all the women came and went, barefoot servants, too.
Outside in the cold distance a wild cat did growl two riders were approaching and the wind began to howl.
Per tutto il tempo alla torre di guardia i principi stavano all’erta / le donne andavano e venivano, anche i servi a piedi nudi. / Fuori in lontananza un puma ringhiò / due cavalieri si stavano avvicinando e il vento incominciò ad ululare.
Ecco la terza e ultima strofa. Qui inizia la storia: il ladro e il giullare sono due cavalieri che si dirigono insieme, uniti nei loro ideali, verso la torre di guardia (the watchtower). C’è paura, si sente il pericolo, tra premonizioni e minacce il racconto si conclude con l’ululare del vento… forse lo stesso vento carico di risposte di “Blowing in the Wind”?
Questi versi sono stati interpretati come una chiara ripresa dal Libro di Isaia (21:8-9)in cui si legge: La vedetta ha gridato: «Al posto di osservazione (watchtower), Signore, io sto sempre, tutto il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutta la notte. Ecco, arriva una schiera di cavalieri, coppie di cavalieri». Essi esclamano e dicono: «È caduta, è caduta Babilonia! Tutte le statue dei suoi dèi sono a terra, in frantumi».
“All Along the Watchtower” annuncia la caduta di Babilonia, la sede della corruzione e del male del mondo, per tutto il testo, senza però nominarla mai. I due cavalieri, il ladro e il giullare, stanno arrivando ad annunciarne la caduta?
Forse il vento che soffia (“the wind began to howl”) potrebbe essere un riferimento agli Angeli del Signore che si schierarono su Babilonia e cominciarono ad agitare le ali, creando un vento così forte da distruggere tutta la città.
Forse il giullare e il ladro sono la stessa persona: Bob Dylan da un lato e Robert Allen Zimmerman dall’altro. Il giullare è la rock star che sembrava aver preso il sopravvento nella stagione all’inferno che aveva preceduto il disco “John Wesley Harding” e il ladro il cantautore che Dylan ha preso coscienza di essere nella nuova fase della sua carriera.
Ma il testo potrebbe anche alludere, in senso più generico, alla parte umana, terrena, dell’uomo in contrapposizione all’anima spirituale. Il giullare oppresso dalle ingiustizie della vita, viene contrapposto alla figura del ladro che ha l’assoluta tranquillità di chi è giunto ad un livello più alto di conoscenza.
O forse sono solo due uomini che cavalcano verso il loro destino, in fuga da un mondo corrotto che li rendeva miseri e patetici.
Non lo sapremo mai, Bob Dylan ha lasciato a noi ascoltatori la conclusione della storia.
“Thriller” di Michael Jackson è il disco più venduto di tutti i tempi, si stima siano oltre 110 milioni le copie vendute. Sesto album in studio del Re del Pop, pubblicato il 30 novembre 1982, è una pietra miliare della musica, 9 brani che hanno fatto la storia e che nascondo qualche sorpresa.
Come la title-track “Thriller” che non è stata scritta da Michael Jackson, ma dal cantautore compositore, produttore discografico e musicista inglese Rod Temperton. Soprannominato “l’uomo invisibile” perché pur avendo firmato molti successi, e non solo per Michael Jackson, ha mantenuto sempre un basso profilo.
Rod Temperton collaborava con Quincy Jones, produttore di Michael Jackson, e aveva già lavorato col loro al precedente album “Off the Wall” (1979) di cui aveva composto la title-track e anche la traccia numero 2, “Rock with You”.
Johns chiese altri tre pezzi per l’album successivo e Temperton scrisse: “The Lady in My Life”, “Baby Be Mine” e “Starlight”. Le tre canzoni piacquero subito a Michael Jackson e Quincy Jones, ma non erano convinti del titolo dell’ultima, “Starlight”, volevano qualcosa di maggior impatto. L’ispirazione arrivò, di notte:
Mi sono svegliato in piena notte e ho detto questa parola. Qualcosa nella mia testa mi ha detto subito “questo è il titolo”. Potresti visualizzarlo in cima alle classifiche di Billboard, puoi immaginare il merchandising per questa sola parola, è saltato fuori da solo: “Thriller”.
Rod Temperton
E funzionò alla perfezione. “Thriller” oltre ad essere un singolo di successo e titolo dell’album più venduto nella storia, è anche il videoclip più famoso di sempre. Più che un videoclip si tratta di un cronometraggio, quasi “mini film” – la versione originale dura quasi 14 minuti – che Michael Jackson affidò alla regia di John Landis dopo aver visto il suo film “Un lupo mannaro americano a Londra”: rimase affascinato dalle ambientazioni e pensò di trasporre lo stile horror in musica.
Tra le tante curiosità del videoclip (che stava anche per non essere realizzato a causa del budget milionario richiesto che non entusiasmò la casa discografica) come dimenticare l’ululato del licantropo in apertura: per realizzarlo fu portato in studio un alano di 90 chili, che però non volle collaborare e costrinse lo stesso Michael Jackson a tentare di riprodurre con la sua voce quel suono sinistro, riuscendoci poi alla perfezione. Il cigolio della porta venne campionato da una porta dei bagni dello studio e il rumore dei passi fu realizzato facendo camminare su una pedana di legno Michael Jackson fino ad ottenere l’effetto desiderato.
La voce fuori campo e la malvagia risata finale sono invece dell’icona del cinema horror Vincent Price, coinvolto nel progetto grazie alla moglie del produttore Quincy Jones, amica di Price.
Ultima curiosità sull’album: la celebre ballata “Human Nature” – traccia numero 7 del disco ed altro grande successo – è stata scritta da Steve Porcaro, tastierista dei Toto. Pare ispirata dalla figlia, all’epoca in prima elementare, che tornò a casa in lacrime perché un suo compagno di scuola l’aveva spinta, per confortarla le disse: “è la natura umana”. Il demo arrivò per caso nelle mani di Quincy Jones e poi di Michael Jackson che la volle inserire in “Thriller” e l’ha poi incisa insieme ai Toto per la parte strumentale.
Attenzione: questo non toglie nulla all’importanza, alla bravura e al genio che hanno reso Michael Jackson l’indiscusso Re del Pop!
Le Bangles sono state uno dei più grandi fenomeni commerciali degli anni Ottanta. Una band tutta al femminile dal sound retrò che cercava di richiamare lo spirito degli anni Sessanta, lontano dal contemporaneo Rock da stadio. Un gradevole, allegro e a tratti nostalgico Pop-Rock radiofonico che raggiunse la vetta delle classifiche di tutto il mondo con le hit: “Manic Monday”, “Walk Like ad Egyptian” e “Eternal Flame”.
Il primo grande successo per le californiane Bangles arrivò nel 1986 con il singolo “Manic Monday” che fece il giro del mondo e si piazzò al secondo posto delle classifiche inglesi e statunitensi, ma non riuscì a spodestare la vetta saldamente occupata dalla famosissima “Kiss” di Prince.
Ed era stato proprio il genio di Prince a dare una notevole spinta al successo delle Bangles: “Manic Monday” infatti è stata scritta e composta dallo stesso Prince (con lo pseudonimo “Christopher”), in origine per un altro gruppo femminile creato da lui nel 1980, le Apollonia 6.
Si racconta che Prince abbia scoperto le Bangles vedendo un loro videoclip su MTV, ne rimase molto colpito e si recò ad un loro concerto. Il gossip anni ’80 dice che Prince fosse un loro vero fan, che conoscesse le loro canzoni a memoria e che si fosse innamorato della leader del gruppo, Susanna Hoffs. Queste voci non furono mai confermate, ma di certo si sa che Prince regalò loro un demo con sue due canzoni indedite: “Jealous Girl” (scartata) e “Manic Monday”.
Sono andata a prendere una cassetta. C’erano due canzoni, una era “Manic Monday” e l’altra si intitolava “Jealous Girl”. Dovrei cercare quella cassetta, so di averla ancora, è in una scatola da qualche parte. Nella demo la canzone era cantata da una ragazza. Penso che ci stesse regalando quel pezzo e avremmo dovuto cantarlo in quel modo, ma volevamo rifare tutto da zero
Susanna Hoffs, The Bangles
Che emozione deve essere stata per le Bangles incidere un pezzo scritto da una superstar! Susanna Hoffs in un’intervista racconta che mentre era in sala di registrazione ad incidere quella canzone l’emozione era così forte che si sentiva quasi come se avesse la febbre alta. «Sapevo che era una canzone dei Prince e volevo fare un ottimo lavoro. Quelle vibrazioni sono la migliore sensazione al mondo. Registrare crea molto stress psicologico: c’è tanta pressione perché c’è molto in gioco e vuoi essere sicuro di fare del tuo meglio, dato che deve essere catturato per sempre su nastro. (…) Prince è venuto alle nostre prove dopo che il disco era finito, ed era davvero elettrizzato per come era venuto. Penso che abbia detto qualcosa del tipo: “Oh, sono stato sorpreso che voi ragazzi non abbiate usato la mia traccia” o qualcosa del genere. Ma ne è stato molto contento».
Una demo di “Manic Monday” cantata da Prince è stata recentemente pubblicato nel 2019 nell’album “Original” un album di 15 tracce con 14 registrazioni inedite che mettono luce sul ruolo vitale dietro le scene che Prince ha avuto nelle carriere di altri artisti. Oltre che grandissimo performer, cantante e musicista, a metà degli anni ’80 Prince dominava le classifiche anche come autore/produttore con le canzoni che aveva composto e registrato per molti altri artisti.
In tempi di quarantena e Coronavirus, “Manic Monday” è stata “riscoperta” da Billie Joe Armstrong, frontman dei Green Day. Un regalo ai fan di cui è stato realizzato anche un videoclip: rigorosamente dal divano di casa Billie Joe duetta a distanza proprio con Susanna Hoffs, scatenata dal suo salotto con la chitarra in spalla.
“In the jungle, the mighty jungle, the lion sleeps tonight” la conosciamo tutti, è una canzone famosissima che ci riporta all’instante nella selvaggia Africa con il suo strano ritornello che suona circa così: “auimmauè auimmauè”. Forse non tutti sanno che “The lion sleeps tonight” è canto che proviene veramente dall’Africa, una storia paradossale di un evergreen campione d’incassi che vale la pena scoprire.
Siamo a Johannesburg, Sudafrica, nel 1939, negli studi della casa discografica Gallo Records. Il governo sudafricano incoraggiava l’emancipazione e l’integrazione tra bianchi e neri, così successe a Solomon Linda, uno Zulu “occidentalizzato” che si esibiva con un suo gruppo vocale, The Evening Birds, con un repertorio basato sui canti tradizionali della sua tribù.
Solomon Linda incise per la Gallo Records un canto rituale che la sua tribù degli Zulu intonava prima di iniziare una battuta di caccia al leone, titolato “mbube” che nella sua lingua significa “leone”. Il trascinante e ossessivo ritornello si susseguiva in una serie di ripetizioni e gorgheggi della frase uyimbube (“tu sei un leone”) su di una base ritmica, senza una vera e propria melodia.
L’incisione fu pubblicata dalla Gallo Records ed ottenne un grosso successo in Sud Africa e Solomon Linda ne cedette i diritti per una cifra irrisoria di circa 10 scellini. Quando Solomon Linda morì nel 1963 la sua canzone era famosa in tutto il mondo, contribuì ad arricchire molte persone, ma lui morì senza saperlo, analfabeta e in povertà.
Quell’incisione nel 1939 fu riscoperta da Alan Lomax, tra i più grandi etnomusicologi del Novecento conosciuto anche come “il padre del folksong revival american”, che ne intuì subito le grandi potenzialità e trovò un gruppo folk a cui affidarla: i Weavers di Peter Seege. Nel 1952 il gruppo la incise nel loro stile: ne accelerarono il ritmo dandogli un taglio swing e cambiarono il titolo in “Wimoweh”, una occidentalizzazione dell’originale “uyimbube”.
Il brano ebbe un discreto successo e fece sorgere la problematica della proprietà intellettuale della musica. Pete Seeger volle che almeno parte dei diritti d’autore andassero a Solomon Linda, ma non sapeva che li aveva ceduti per una cifra simbolica alla casa discografica.
Nel 1961 poi una nuova svolta: i produttori Hugo Peretti e Luigi Creatore della Rca ripropongono il brano con un nuovo testo originale di George Weiss e con il titolo “The lion sleeps tonight” interpretato dal gruppo dei Tokens. Nasce il grande successo internazionale che ha reso questo antico canto zulu famoso in tutto il mondo. È una hit che travalica che frontiere, le generazioni, reinterpretata innumerevoli volte e utilizzata per molti film e pubblicità.
L’enorme successo della canzone smosse poi molte controversie per la proprietà intellettuale della canzone a favore della vedova e delle figlie di Solomon Linda. Soprattutto dopo l’uscita del film Disney “Il re leone” nel qualche era utilizzata una versione strumentale di “The Lion Sleeps Tonight” che avrebbe potuto fruttare loro una cifra a molti zeri. La vicenda si è recentemente risolta con un accordo tra le eredi e Weiss, Peretti e la Abilene Music, attuale detentrice del copyright sulla canzone.
Un finale dolce e amaro per il canto di un’antica tribù africana che suo malgrado continua a girare il mondo inserito nei contesti più disparati.
“Dio è morto” è forse la canzone più famosa di Francesco Guccini, spesso erroneamente attribuita ai Nomadi. Guccini la scrisse nel 1965 e fu portata al successo dai Nomadi che per primi la pubblicarono nell’album “Per quando noi non ci saremo” del 1967 e con cui parteciparono anche al Cantagiro di quell’anno. Sembra sia stata la prima canzone depositata alla Siae da Francesco Guccini che, però, non la registrò mai in studio e la iniziò a cantare nei suoi concerti soltanto una decina di anni dopo.
Francesco Guccini è stato definito da Umberto Eco “il più colto dei nostri cantautori” e iniziò la sua carriera con un brano che oggi è tra i più belli non solo della produzione gucciniana, ma della canzone italiana. Guccini con la sua schiettezza disarmante scrive un inno contro il consumismo, quasi blasfemo nel titolo, ma straordinariamente intriso di spiritualità.
“Dio è morto” è un titolo che richiama il noto aforisma di Friedrich Nietzsche, tra i più famosi della storia della Filosofia, contenuto nella Gaia scienza. Anche se in realtà, come da dichiarazioni dello stesso autore, la canzone prende spunto dal poema Urlo del poeta statunitense Allen Ginsgerg che inizia così: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte […].»
Avevo 25 anni e stavo studiando all’Università di Bologna (sembra strano, sono stato giovane anch’io). I primi sit-in e il Sessantotto erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale. Stava arrivando qualcosa che avrebbe portato ad una nuova primavera, l’idea era questa, giocata su un registro fra l’apocalittico e l’esistenziale. (…) La prima incisione, dei Nomadi, porta nel titolo un punto interrogativo, oltre al sottotitolo fra parentesi “Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”.
Ma c’è un altro aneddoto su “Dio è morto”. Quando andavo all’università pensavo ad una carriera accademica. Fortunatamente ho cambiato strada! Avevo fatto tutti gli esami, mancava solo la tesi, ma mi bocciarono in latino, sui paradigmi, io ricordavo solo i più facili. Il professore disse all’assistente: «Lo sa che questo ragazzo ha scritto quella bellissima canzone che si chiama “Dio è morto?” [era stata appena incisa dai Nomadi]. Però, si ricordi, i paradigmi vanno chiesti a tutti». E mi dissero di tornare.
Francesco Guccini, dal libro “Il Vangelo secondo Francesco” di Giancarlo Padula
“Dio è morto” ha avuto una storia controversa: nell’aprile del 1967 venne censurata dalla Rai che si fermò alla forte affermazione espressa nel titolo e non comprese il significato del testo. La canzone in realtà non celebra la morte di Dio, ma proclama la necessità di una rinascita spirituale e morale. È una critica al falso moralismo, al vuoto consumismo, al perbenismo e all’ipocrisia.
Il messaggio venne colto dall’allora papa Paolo VI che la fece trasmettere da Radio Vaticana. Nel testo di Guccini, Dio non muore negli ideali di una società migliore, anzi: “in ciò che noi crediamo Dio è risorto, in ciò che noi vogliamo Dio è risorto, in ciò che noi faremo Dio è risorto“.
“Dio è morto” descrive con un linguaggio semplice e schietto un presente intriso di falsi miti e falsi dei. Guccini contesta ciò che ha avvelenato la società con una canzone manifesto che esorta alla nascita di nuovi valori morali e spirituali, che non siano dogmatici o privi di senso. Il testo inizia con un’affermazione che suona già come una protesta: “Ho visto”. Guccini denuncia l’abuso di stupefacenti, di alcool, i falsi miti della moda, la religione vissuta come un’abitudine, la corruzione, il razzismo…
Aggiunsi una speranza finale non perché la canzone finisse bene, ma perché la speranza covava veramente.
Francesco Guccini
“È una critica generazionale che si rivolgeva alla gente di allora, anche se ogni volta che la canto in concerto mi stupisco del fatto che i giovani la conoscano a memoria dopo tanti anni… Non riesco ad eliminarla dalla scaletta! Il merito, però, devo dire, non è del tutto mio, ma degli “sponsor” di queste canzoni (potrei ricordare anche “Auschwitz”), i razzisti e gli imbecilli che, a quanto pare, tornano periodicamente alla ribalta“. Francesco Guccini
(dal libro “Il Vangelo secondo Francesco” di Giancarlo Padula)
Ho visto La gente della mia età andare via Lungo le strade che non portano mai a niente Cercare il sogno che conduce alla pazzia Nella ricerca di qualcosa che non trovano Nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate Lungo le strade da pastiglie trasformate Dentro le nuvole di fumo del mondo fatto di città Essere contro ad ingoiare la nostra stanca civiltà E un dio che è morto Ai bordi delle strade, dio è morto Nelle auto prese a rate, dio è morto Nei miti dell’estate, dio è morto
Mi han detto Che questa mia generazione ormai non crede In ciò che spesso han mascherato con la fede Nei miti eterni della patria o dell’eroe Perché è venuto ormai il momento di negare Tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura Una politica che è solo far carriera Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto e un dio che è morto Nei campi di sterminio, dio è morto Coi miti della razza, dio è morto Con gli odi di partito, dio è morto
Ma penso Che questa mia generazione è preparata A un mondo nuovo e a una speranza appena nata Ad un futuro che ha già in mano A una rivolta senza armi Perché noi tutti ormai sappiamo Che se dio muore è per tre giorni e poi risorge In ciò che noi crediamo, dio è risorto In ciò che noi vogliamo, dio è risorto Nel mondo che faremo, dio è risorto
Era il 1997 quando uscì il primo singolo del terzo album “Urban Hymns” di una band allora semi-sconosciuta: “Bitter Sweet Symphony” dei Verve. Sulla scia del Brit-Pop lanciato da Oasis e Blur, divenne una delle canzoni di maggior successo di quegli anni, grazie anche al memorabile videoclip in cui Richard Ashcroft, leader e cantante della band, cammina sul marciapiede all’incrocio tra Hoxton and Falkirk Streets nel nord di Londra.
Indifferente a tutto ciò che gli accade attorno, procede dritto e sicuro per la sua strada, senza mai spostarsi o fermarsi finendo per urtare chiunque incontri. Ashcroft ricorderà in un’intervista come il video fu ispirato da una raccomandazione che gli ripeteva spesso sua madre quando era piccolo: nella vita bisogna andare avanti sempre a testa alta e non fermarsi davanti a nulla.
Il videoclip di “Bitter Sweet Symphony” prende anche ispirazione dal video di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack(1991) nel quale Shara Nelson passeggia in un quartiere di Los Angeles. Le curiosità sul brano che ha consacrato i Verve e Richard Ashcroft icona del Rock mondiale non sono finite qui.
Forse non tutti sanno che il famosissimo giro orchestrale, struttura portante dell’intero brano, non è originale, ma è stato campionato da una celebre canzone dei Rolling Stones, “The Last Time” (1965). Per la precisione da una particolare versione strumentale di questo brano pubblicata nell’album “The Rolling Stones Songbook” (1966): un progetto ideato dall’allora manager degli Stones che aveva fatto incidere i loro maggiori successi ad una orchestra creata ad hoc per l’occasione, la Andrew Loog Oldham Orchestra.
L’idea di utilizzare questo sample del brano dei Rolling Stones pare sia stata del bassista dei Verve, Martin Glover. Come in tutte le leggende Rock che si rispettino, sembra che Richard Ashcroft non volesse nemmeno inserire “Bitter Sweet Symphony” nel disco, non lo convinceva; fu solo quando Glover gli propose un arrangiamento con un’orchestra d’archi che cambiò idea.
Chiesero ed ottennero il permesso di usare poche note della versione orchestrale di “The Last Time” dei Rolling Stones e crearono il brano sulla base di quella struttura armonica enfatizzandone la solennità. Un’unione quasi paradossale se si analizza il testo della canzone che non ha nulla di trionfale, anzi è un triste inno esistenzialista: descrive il paradosso di un’esistenza votata al dio danaro e alla convinzione di dover lavorare per vivere.
Il primo verso di Bitter Sweet Symphony dice: “Sei schiavo dei soldi e poi muori”. Nessuno avrebbe detto che sarebbe diventata una hit.
Richard Ashcroft
Una “dolce e amara sinfonia” che ha scatenato una lunga serie di controversie giudiziarie. Dopo un iniziale accordo di utilizzo di quelle poche note del brano, pare per una divisione dei diritti al 50 e 50, Allen Klein il manager dei Rolling Stones (forse vedendo che il sample era diventato l’intera struttura musicale del brano o forse intuendone il successo) pretese il 100% dei diritti e gli autori della musica di “Bitter Sweet Symphony” risultarono Mick Jagger e Keith Richards. Ashcroft commentò sarcasticamente: “È la più bella canzone che Jagger e Richards hanno scritto negli ultimi 20 anni”.
Questo causò la perdita di una grande quantità di introiti per Richard Ashcroft e i Verve, “Bitter Sweet Symphony” in quegli anni incassò molto. Era sulla vetta delle principali classifiche, candidata a Grammy Awards e MTV Music Award, utilizzata come colonna sonora di molte pubblicità, programmi televisivi e film.
Richard Ashcroft decise di intraprendere le vie legali, un lungo percorso che si concluse solo nell’aprile del 2019 con la rinuncia di Jagger e Richards ai diritti sulla canzone e il passaggio di tutte le royalties ad Ashcroft.
È stato un gesto molto gentile e magnanimo da parte loro. Non ho mai avuto niente di personale con gli Stones. Sono sempre stati la più grande rock band del mondo. Ed è stata una conclusione fantastica. Ti fa guardare positivamente alla vita.
“La cura” di Battiato non è una canzone d’amore. O almeno non lo è nel significato più semplice che diamo alla parola “amore” e che ci porta ad interpretarne il testo come una dedica di un innamorato alla persona amata.
Franco Battiato non ha mai dato un’esatta spiegazione del significato di questa canzone, ma ogni opera del Maestro e la sua intera carriera ha seguito un’evoluzione filosofica che è sempre stata alla base di ogni sua produzione artistica.
Scrivere di Battiato e cercare di spiegare il significato di un testo così importante non è impresa facile. Soprattutto perché la musica e la poesia, come tutte le arti, sono aperte all’interpretazione; personalmente credo sia impossibile pensare di riuscire a cogliere il più intimo significato di un’opera. Qualunque essa sia. Una canzone, ad esempio, può assumere per ciascuno di noi un particolare senso e significato ed è giusto che sia così; ma, purtroppo, non potremmo mai essere nella mente e nel cuore dell’artista che l’ha creata. Un problema che si traspone anche nella traduzione e nella parafrasi dei classici e che ho ritrovato espresso molto chiaramente in un saggio di estetica titolato “Traducibilità e intraducibilità della poesia” scritto dal Prof. Gianni Floriani – persona a me molto cara – (“Rivista di Estetica”, Anno III, Fascicolo I, gennaio-aprile 1958).
Questa doverosa premessa non toglie la possibilità di cercare di avvicinarsi e provare a dare una spiegazione ad una delle canzoni più belle della storia della musica italiana. “La cura” è stata pubblicata nel 1996 all’interno dell’album “L’imboscata” ed è stata scritta insieme a Manlio Sgalambro, filosofo ed intellettuale che per anni ha collaborato con Franco Battiato. Battiato ad una domanda di Luca Cozzari (“Battiato”, 2005, p. 19) a riguardo ha risposto: «io ho iniziato la prima parte e lui ha fatto la seconda» senza precisare quale sia la prima o la seconda.
Di certo sappiamo che Battiato non solo in molte canzoni, ma anche nelle sue opere contemporanee e nei film, lancia messaggi particolari per suscitare la curiosità e l’intelletto degli ascoltatori più sensibili:
In realtà sono certi consigli che possono essere utili a chi segue il mio lavoro e in qualche modo è interessato all’evoluzione spirituale. E, in questo senso, ci metto tutte le trappole del caso: se una persona non è ancora pronta a ricevere certi messaggi, non li può afferrare, perché c’è qualcuno che te li deve spiegare. La via spirituale è una via molto impegnativa, necessita di esperienza.
Franco Battiato (Video intervista su XL di Repubblica del 7 novembre 2012).
Sappiamo che Franco Battiato è molto vicino all’esoterismo e alle filosofie orientali, ha fatto parte per anni della scuola di Georges Ivanovič Gurdjieff per poi parzialmente discostarsene. Uno dei concetti base di questa scuola di pensiero è il “centro di gravità permanente”, il grado di coscienza di sé, teorizzando varie possibilità di perfezione. Per Gurdjieff infatti non tutti gli uomini hanno un’Anima: solo pochi eletti illuminati che hanno svolto un efficace lavoro su di sè possono arrivare a raggiungere il loro corpo astrale.
Sempre secondo Gurdjieff ci sono molte strade, più o meno lunghe, più o meno dure, ma tutte, senza eccezione, conducono o cercano di condurre in una stessa direzione: l’immortalità. L’immortalità non è una proprietà con la quale un uomo nasce, ma una proprietà che può essere acquisita.
Echi di queste filosofie le troviamo spesso in Battiato, ad esempio nella canzone“Sui giardini della preesistenza”(dall’album “Caffè de la Paix” del 1993) che lui stesso spiega come un riferimento alla nostalgia dello stato di unione con l’Uno (la preesistenza) in cui l’uomo si trovava prima della caduta nel mondo materiale:
Per chi “sa” di essere solo il riflesso di qualcosa di superiore, ed il risultato di un progetto cosmico da condurre a termine.
Franco Battiato (dal libro “Io chi sono?” di Daniele Bossari, 2009, p. 36)
Iniziamo ad avere degli elementi per una probabile interpretazione del testo de “La cura”. Una delle ipotesi più accreditate è infatti che si tratti di un dialogo a senso unico in cui è l’Anima, la parte spirituale, il corpo astrale, a parlare all’essere umano, la sua parte fisica, terrena e materiale.
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
L’uomo è soggetto a paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, malattie, dolori, sbalzi d’umore, ma l’Anima per sua natura si eleva al di sopra delle disarmonie presenti nel piano materiale, si prende cura della sua parte mortale cercando di condurla a Sé.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza
“Le vie che portano all’essenza” potrebbero essere un riferimento al percorso mistico che porta al risveglio, cioè a riscoprire il proprio io più profondo e congiungersi con l’Uno. È il lavoro che, con pazienza e meditazione, deve essere compiuto dall’uomo illuminato, raccontato da Battiato nel brano “E ti vengo a cercare” (dall’album “Fisiognomica” del 1988), anche questo, spesso, travisato e interpretato come una canzone d’amore: «No, non c’era nessuna donna. Cercavo di volare più alto» commentò Battiato a riguardo.
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono Supererò le correnti gravitazionali Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Si può parlare di amore, ma di un Amore puro, ultraterreno, universale, inteso come energia che conduce l’uomo verso la parte spirituale che per sua natura è “oltre” il piano terreste dell’esistenza. L’Anima possiede la Conoscenza (le leggi del mondo) e la dona all’uomo illuminato; è capace di superare correnti gravitazionali, lo spazio e la luce, è al di là del concetto di tempo, è immortale.
Secondo le dottrine che hanno influenzato Franco Battiato, l’uomo è una sorta di angelo caduto in Terra dall’Eterno:
Siamo all’interno di un corpo di cui accettiamo tutte le schiavitù possibili, perché è sempre meglio dell’ignoto. Abbiamo paura perché non sappiamo dove si va a finire. Non è che forse abbiamo dimenticato le immense possibilità dell’Essere? (….) La guarigione dovrebbe essere la ricongiunzione definitiva con il Divino.
Franco Battiato (intervista con Stefania Vitulli, Il Giornale, 2007)
L’uomo illuminato attraverso un duro lavoro interiore anela al ricongiungimento con la sua parte spirituale, l’Uno da cui deriva. Un percorso che porta alla completa “guarigione” e che avviene dopo un lunghissimo ciclo di vite, ciò presuppone il credere nella reincarnazione. Se la via verso l’eternità e il ricongiungimento con il corpo astrale è la nostra “guarigione”, la “cura” passa inevitabilmente attraverso il superamento della morte.
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore Dalle ossessioni delle tue manie Supererò le correnti gravitazionali Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
E guarirai da tutte le malattie Perché sei un essere speciale Ed io, avrò cura di te
Vagavo per i campi del Tennessee Come vi ero arrivato, chissà Non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni Attraversano il mare
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi La bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono Supererò le correnti gravitazionali Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Ti salverò da ogni malinconia Perché sei un essere speciale Ed io avrò cura di te Io sì, che avrò cura di te
Anche quest’anno la Primavera è arrivata, citando Neruda: “potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la Primavera”. È la stagione della rinascita che ha ispirato tanti artisti, poeti e musicisti, da compositori classici come Antonio Vivaldi e Igor’ Stravinskij alle canzoni Pop di Loretta Goggi e Riccardo Cocciante. Oggi vi parlo di un successo di metà anni ’90, una canzone gioiosa e spensierata capace di raccontare tutto il senso di fresca libertà che ci regala la Primvera.
“Respiriamo l’aria e viviamo aspettando Primavera” semplice ritornello di un vero e propriotormentone pubblicato nel 1997 dalla cantante romana Marina Rei. Figlia di Vincenzo Restuccia, batterista di Ennio Morricone, Marina Rei è una bellissima voce della scena musicale italiana. Iniziò la sua carriera nei primi anni ’90 con lo pseudonimo di Jamie Dee componendo alcuni dischi Dance, ma raggiunse il successo con il singolo “Primavera” secondo estratto dall’album “Donna” nel 1997.
Un successo che ogni anno ancora oggi torna nelle radio e che ha superato la prova del tempo, anche se in realtà è una cover del brano “You to Me Are Everything” pubblicato nel 1976 dallo sconosciuto gruppo inglese The Real Thing. All’uscita ebbe un moderato riscontro, ma tornò in classifica in una versione remixata nel 1986 ottenendo, stavolta, un enorme successo.
“Primavera” è stata un grandissimo successo, ad oggi il più grande successo commerciale di Marina Rei che le ha permesso di raggiungere la vetta delle classifiche e vincere il “Disco per l’estate” del 1997. Anche se forse non è il suo brano più rappresentativo.
Una menzione speciale va anche al videoclip ufficiale in cui compaiono gli attori Margherita Buy e Dario Cassini in una curiosa rivisitazione del film cult “Thelma & Louise” del 1991 diretto da Ridley Scott con Geena Davis e Susan Sarandon. Due amiche in fuga alla ricerca di libertà… e il finale, sarà come nel film?
“Yeah! Shake it up baby now, twist and shout” (sì, agitati piccola, balla il twist e urla) era l’inizio perfetto delle notti infuocate dalla “Beatles-mania”, di folle di fan urlanti e la voce John Lennon che provava a sovrastarle. I Beatles la terranno fissa in scaletta fino alla fine del loro tour americano dell’agosto 1965.
“Twist and Shout” è uno dei successi pubblicati nel marzo 1963 in “Please Please Me” il primo album dei Beatles, il debutto sul mercato di un gruppo che ha cambiato per sempre le sorti della storia della Rock. All’interno del disco c’erano 14 canzoni: 8 originali e 6 cover tra cui “Twist and Shout”.
La storia di questo brano inizia qualche anno prima, nel 1961 quando un giovane Phil Spector (che diventerà uno dei produttori più influenti e rivoluzionari della storia della musica contemporanea) volle lanciare un nuovo gruppo vocale, i Top Notes. Spector scelse per loro il brano “Twist and Shout” composto da Bert Berns (con lo pseudonimo di Bert Russell) e Phil Medley che l’avevano appena presentata alla Atlantic Records.
La canzone fu pubblicata nel settembre 1961 ma non ottenne alcun successo: fu un passo falso del produttore Phil Spector. Jerry Wexler, co-fondatore della Atlantic Records, racconta come fosse stata sbagliata la scelta dell’arrangiamento, l’atmosfera e il tempo. Si racconta che a fine registrazione Bert Berns abbia detto a Wexler: “Complimenti amico, l’avete rovinata”.
Per fortuna la storia di “Twist and shout” non si è fermata qui. Nel 1962 Bert Berns la propone agli Isley Brothers, un gruppo americano di R&B e Soul che aveva da poco raggiunto il successo con il singolo “Shout!”. Questa volta Berns di occupò personalmente della produzione del brano che fu pubblicato nel giugno del 1962 e ottenne un buon successo arrivando al diciassettesimo posto delle classifiche americane.
Il successo degli Isley Brothers verrà presto spazzato via dalla dirompente discesa sul mercato dei Fab Four. Erano le 10 del mattino di lunedì 11 febbraio 1963 quando i Beatles entrano in sala di incisione per registrare il loro primo disco: 10 pezzi in un giorno solo.
Ricorda il produttore George Martin: «Sapevo che “Twist and Shout” gli avrebbe ucciso la gola e così dissi: “Registreremo questo pezzo solo alla fine della giornata, sarà l’ultimo”. Se l’avessimo registrato prima, John sarebbe rimasto sicuramente senza voce. Così facemmo e “Twist and Shout” fu l’ultima cosa che incidemmo quella notte. Volevo due take. Dopo la prima John rimase completamente afono, io avrei voluto qualcosa di meglio, ma anche così era abbastanza buona per il disco».
dal libro ” The Beatles. Yeh! Yeh! Yeh!: Testi commentati. 1962-1966″ di Massimo Padalino
L’ingegnere del suono, Norman Smith, racconta che dopo 12 ore in sala di registrazione le voci dei Beatles erano completamente andate e John succhiava avidamente le sue mentine per la gola facendo qualche gargarismo con il latte per riuscire a portare a termine le registrazioni. Anni dopo John Lennon dirà:
Non riuscivo più a cantare quella maledetta roba, urlavo e basta. Avrei potuto cantarla meglio di così, ma ora non mi importa più: senti un ragazzo affannato che cerca di fare del suo meglio!.
La versione dei Beatles è abbastanza fedele a quella degli degli Isley Brothers, compreso l’intro che ricorda molto “La Bamba” di Ritchie Valens, anche se trasformarono la sonorità da R&B a Rock. “Twist and Shout” uscirà il 22 marzo 1963 nell’album “Please Please Me“, successivamente negli Stati Uniti come singolo 2 marzo 1964 e raggiungerà il secondo posto in classifica il 4 aprile 1964 in una settimana in cui tutte le prime cinque posizioni erano occupate dai Beatles.
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