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I King Crimson e l’uomo schizoide del Ventunesimo secolo

Vi parlo di un album, anzi in particolare del brano d’apertura di un album che ha fatto la storia.
È “21st Century Schizoid Man” e iniziava con queste parole:

Cat’s foot iron claw
Neuro-surgeons scream for more
At paranoia’s poison door
Twenty first century schizoid man.

(Zampa di gatto, artiglio di ferro / Neurochirurghi ne reclamano ancora / Alla porta avvelenata della paranoia / Uomo schizoide del ventunesimo secolo)

Sembra una follia di pensieri sconnessi. Frasi brevi, immagini inquietanti.  È il mondo che va a pezzi, le parole sono violente e aggressive, come l’uomo. L’uomo schizoide del Ventunesimo secolo.

Sono parole che vengono dal lontano 1969 eppure ci suonano così attuali. Sono i versi iniziali del brano con cui si apre un disco che ha fatto la storia: era il 10 ottobre 1969 quando uscì “In the Court of the Crimson King” il primo, storico, album dei King Crimson. Un album che ci riporta al passato, ma contemporaneamente ci proietta nel futuro che oggi è il nostro presente.

Una musica rivoluzionaria

Il brano di apertura del disco, “Twenty First Century Schizoid Man”, è introdotto da circa quaranta secondi di insoliti rumori. Poi arriva il pugno nello stomaco: l’attacco è violento, sconcertante. Uno degli attacchi più celebri che la storia del rock conosca. Ha la forza d’urto di un meteorite piovuto dal nulla. La musica segue a ruota i testi.  Frasi brevi, una voce offuscata, immagini inquietanti. 

Peter Sinfield, l’autore del testo, spiega che con il verso “Cat’s foot, iron claw” voleva descrivere il mondo che va a pezzi: le parole scelte sono violente e aggressive, come l’uomo. Un mondo distopico e anti-utopico, che guardava al futuro, in un luogo e in un tempo in cui i neurochirurghi urlano alle porte avvelenate della paranoia in cerca di altri folli esperimenti (“Neurosurgeons scream for more / At paranoia’s poison door”), ecco l’uomo schizoide del ventunesimo secolo.

Dopo circa un minuto e mezzo la pressione aumenta e il basso di Greg Lake diventa un cuore fuori giri. Nessuno aveva mai ascoltato niente del genere, nessuno si era azzardato a trattare il rock in questo modo: con suoni distorti, contorti, imbevuti di jazz e suggestioni classiche. Qualcosa di futuristico.

La musica dei King Crimson era rivoluzionaria anche nella sua struttura compositiva: era l’inizio del Progressive Rock. Rock, pop, hard, jazz, folk, sperimentazione, memorie sinfoniche, lirismo visionario, poesia surreale, convivono miracolosamente in un album universalmente considerato il più importante di tutto il genere.

I minuti passano e si arriva al secondo verso della canzone che recita così:

Blood rack barbed wire
Polititians’ funeral pyre
Innocents raped with napalm fire
Twenty first century schizoid man.

(Sangue, tortura, filo spinato / Pira funeraria di politici / Innocenti violentati dal fuoco del Napalm / Uomo schizoide del ventunesimo secolo)

Il fuoco del Napalm. Un riferimento facile e diretto alla Guerra di allora, il napalm è l’arma più famosa della guerra del Vietnam. Il brano profetizza un “rogo di politici” avvolti in una pira funeraria infuocata, visti come il sottoinsieme di esseri umani che più di tutti provoca disastri e brutalità. E Peter Sinfield, il paroliere dei King Crimson, poi lo giustificò: “era il risultato diretto della guerra in Vietnam… non puoi diventare un politico se non menti”

“The Court Of The Crimson King è un’osservazione sulla manipolazione. Nessuno dice mai la verità. Ci hanno mentito re, principi e papi che desideravano mantenere il proprio potere. I Poeti la vedono dal punto di vista machiavellico e hanno considerazione per i poveri e le vedove che sono quelli che alla fine soffrono. Così stanno le cose. Non senti mai buone notizie, solo cose che riguardano rapimenti e uccisioni. Alcune persone scrivono ciò che vedono”.

Peter Sinfield

È ironico come sembri una fantasia dei Crimson dopo un incubo di fine anni ’60, invece l’ironia finisce quando colleghiamo i punti tra il senso della canzone e la realtà di oggi: il ventunesimo secolo.

Un album riflette la condizione umana, l’eterna convivenza con la guerra, i vizi e le psicosi dell’intero genere umano. Uno scenario di immagini devastanti in un imprecisato Ventunesimo Secolo nel quale il tempo è imploso, la libertà svanita, le speranze impensabili.

Una canzone arrabbiata per alcuni dei più tristi aspetti del mondo.

“In the Court of the Crimson King” si configura come un manifesto culturale oltre che musicale del Progressive Rock, una visione post-apocalittico, dove ogni profezia sembra essersi compiuta e l’orrore della morte, è l’unica realtà, mentre alla corte del Re Cremisi (brano di chiusura del disco) tutto è finzione. L’uomo intravede la fine del millennio ed è solo, senza più ideali, davanti alle “porte velenose” della follia.

Sul canale YouTube di Musicologica trovate anche l’articolo in versione video

Un urlo che viene dal passato e abbraccia il futuro

Così recita la terza e ultima strofa del brano:

Death seed blind man’s greed
Poets’ starving children bleed
Nothing he’s got he really needs
Twenty first century schizoid man.

(Seme di morte, avidità dell’uomo cieco / Poeti affamati, bambini sanguinanti / Non ha nulla di cui abbia veramente bisogno / Uomo schizoide del ventunesimo secolo)

Così pessimista da profetizzare il futuro prendendoci in pieno. Ne scardina le certezze, ne tira fuori la paura e l’angoscia, che solo a pensarci viene l’istinto irrefrenabile di fare come l’uomo in copertina: urlare.

La copertina del disco

La copertina è una delle più grandi icone della storia del Rock: il viso color blu e cremisi di un nuovo deformato in un urlo che può essere di terrore, disperazione, dolore. Un urlo che viene dal passato e abbraccia il futuro.

Anche l’interpretazione vocale di Greg Lake incarna perfettamente l’urlo della copertina. La voce distorta e filtrata sembra quella diffusa da un megafono, come nelle manifestazioni di piazza, ma compressa e senza riverbero, dà la chiara impressione di trovarsi in uno spazio chiuso, claustrofobico.

L’uomo schizoide del XXI secolo

Il nostro, infatti, è un uomo schizoide, la sua “anomalia” ha origine in un disturbo della personalità che fa parte dei comportamenti strani o paranoici caratterizzati dall’isolamento. Il disturbo schizoide genera un desiderio di distacco dalle relazioni sociali e dalla vita emotiva. In greco “schizo” significa “scissione”: alla base c’è dunque una cesura, una ferita, la segreta consapevolezza del terrore alla quale si reagisce con il ritiro.

L’emozione di fondo dello schizoide è il terrore, la paura. Ecco che l’uomo schizoide raccontato dai King Crimson è una vittima della società del Ventunesimo secolo. Ed è continuamente sotto controllo.

Ogni strofa del testo evidenzia una dissociazione tra chi detiene il potere, chi controlla e opprime (Neuro-surgeons scream for morePolititians’ funeral pyreDeath seed blind man’s greed) e chi subisce, impotente e alienato (paranoia’s poison doorInnocents raped with napalm firePoets’ starving children bleed) . Il verso finale arriva come monito, mette in guardia sul destino dell’umanità. A osservare l’uomo e questo scenario c’è una figura: un sovrano sovrannaturale. Già presente nel sottotitolo assegnato al disco “An Observation – un’osservazione – By King Crimson”: il Re Cremisi è l’osservatore privilegiato nella cui Corte si svolge la Grande Opera iniziata dai King Crimson.

È un’opera d’arte totale che ha la capacità di veicolare il proprio messaggio coinvolgendo tre tipi di linguaggi: la musica, la poesia e la pittura.

Il brano termina con il caos indistinto, ogni strumento viene lasciato libero di seguire un percorso non tracciabile che rende molto bene l’immagine di un mondo che sta per finire follemente fuori controllo.

In quel periodo sembrava fantascienza, ma quest’album ha guardato avanti.  Anche troppo.

King Crimson – 21st Century Schizoid Man

BIBLIOGRAFIA:
Andrea C. Soncini “King Crimson. Gli anni prog”, Giunti, 2018.
Alessandro Staiti “In the court of the Crimson King”, Arcana, 2016.
Donato Zoppo “King Crimson. Islands. Testi commentati”, Arcana, 2013.

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Meat loaf, Steinman e un motociclista alla ricerca del Graal

La musica è sempre stata un laboratorio affascinante nel quale personalità diverse, talvolta addirittura opposte, si incontrano e scontrano, a volte generando disastri e a volte dando vita a capolavori senza tempo. Non c’è una regola, è necessaria un’alchimia speciale, un insieme di coincidenze date da fattori diversi, sfuggenti e misteriosi.

Questa storia comincia con Jim Steinman, un giovane compositore e pianista, un personaggio particolare con uno stile e una personalità fuori dagli schemi. Dopo aver realizzato alcuni musical, a metà degli anni ’70 è impegnato nell’ideazione e composizione della sua nuova opera dal titolo “Neverland”, un musical incentrato su una sorta di versione fantascientifica e futuristica di Peter Pan. Sono state composte solo alcune bozze quando entra in scena il secondo tassello del mosaico, impersonato dalla classe, dal carisma, dalla teatralità di Marvin Lee Aday, in arte Meat Loaf, cantante e attore con all’attivo ruoli in alcuni musical.

Meat Loaf e Jim Steinman nel 1977

Le interpretazioni di Meat Loaf fanno scattare una molla a Steinman, che stravolge l’intero progetto abbandonando le intenzioni originarie in favore della realizzazione di un vero e proprio Rock album, dal titolo “Bat out of Hell”. Nonostante la qualità dei brani, i due passeranno un lungo ed estenuante periodo alla ricerca di una casa discografica che accettasse di produrlo, e, solo tramite un sotterfugio, riuscirono a convincere il terzo elemento del team, il chitarrista Todd Roundgren, a produrre il disco.

L’album uscì nell’ottobre del 1977. Non fu un successo immediato. Le sonorità epiche e barocche del disco richiesero del tempo per essere assimilate dall’ascoltatore Pop e Rock a stelle e strisce. La popolarità dell’album è rimasta inalterata nel corso del tempo, divenendo un classico e, secondo alcune fonti, uno dei dieci album più venduti nella storia della musica con oltre 40 milioni di copie vendute.

Una sorta di Opera Rock, un genere in voga all’epoca, come nel caso di “Jesus Christ Superstar”, “Tommy” degli Who, o il musical “Hair” (nella quale aveva recitato lo stesso Meat Loaf a fine anni ’60 nella produzione di Los Angeles).

Il brano più rappresentativo, simbolo dell’album e autentico apice della produzione di Meat Loaf è la lunga titletrack (Bat out of Hell”) posta in apertura del disco, una storia epica che traspone la figura del cavaliere errante della letteratura cavalleresca medievale in un motociclista metallaro che sfreccia nella notte in sella al suo destriero, la sua “silver-black phantom bike”.

L’overture iniziale ci catapulta nel pieno dell’azione: la corsa fiammante di una motocicletta che sfreccia nelle highways americane tra pattern di piano indiavolati e potenti stacchi ritmici, sfocia in un melodico splendido solo di chitarra di Todd Rundgren per poi spegnersi un attimo di respiro. L’eroe contempla la valle innanzi a lui. Con un sottofondo di piano la teatrale voce di Meat Loaf porta in scena figure misteriose e una sensazione di pericolo imminente:

“The sirens are screaming, and the fires are howling
Way down in the valley tonight
There’s a man in the shadows with a gun in his eye
And a blade shining oh so bright
There’s evil in the air and there’s thunder in the sky,
And a killer’s on the bloodshot streets”

La penna di Jim Steinman disegna figure tipiche dell’immaginario americano tutto film d’azione, fumetti e popcorn. Il mito dell’eroe che da cavaliere medievale alla ricerca del Graal diventa il ribelle della società e, in sella alla sua moto, respinge un mondo fatto di convenzioni e facciate. Il fulcro centrale rimane lei, la ragazza amata, in grado di portare la luce laddove vi era solo oscurità:

“Oh, baby you’re the only thing in this whole world
That’s pure and good and right
And wherever you are and wherever you go
There’s always gonna be some light”

A ribadire il passaggio dalle oscure minacce al luminoso pensiero dell’amata, un coro di voci femminili dona sacralità e solennità al crescendo musicale, segno che ogni passaggio musicale è strettamente collegato allo svolgersi dell’azione. Con uno stacco elettrico il tormento del protagonista trasforma le figure minacciose della notte in demoni interiori, una sensazione di vuoto… dove “nothing really rocks, and nothing really rolls“. Un vuoto che solo lei che rappresenta ogni luce e purezza può scacciare, ma solo la notte.

La libertà anelata dal protagonista è anche libertà dalle catene di un amore ordinario e quotidiano. Steinman, amante del buio e della notte tanto che pare che componesse soltanto nelle ore notturne, ribadisce l’importanza che al sorgere del sole ognuno prenderà la propria strada. Esattamente “like a bat out of hell I’ll be gone when the morning comes“, il protagonista vive la notte quasi come un antico vampiro imprigionato in un mondo moderno, ritirandosi dalla luce del giorno, ma pronto a tornare al calare del sole:

“But when the day is done
And the sun goes down
And the moonlight’s shining through
Then like a sinner before the gates of Heaven
I’ll come crawling on back to you”

Sembra la conclusione del brano, ma il rombo di un motore squarcia come un tuono il silenzio della strada. La chitarra di Rundgren imita alla perfezione il ruggito della moto per poi lanciarsi un solo urlato e melodico mentre un piano indiavolato arricchisce lo sfondo con i suoi barocchismi.
Torna il protagonista, in sella al suo destriero che, come un fulmine, sfreccia in strada. I pensieri volgono sempre a lei, e questa distrazione gli sarà fatale.

“And no one’s gonna stop me now, I’m gonna make my escape
But I can’t stop thinking of you,
And I never see the sudden curve until it’s way too late”

Ancora una volta Steinman dirige la musica come fosse un film: ogni sezione strumentale corrisponde a quello che succede nella storia in un trionfo epico e wagneriano. L’esplosione di chitarra e batteria imita lo schianto della moto.

“And the last thing I see is my heart
Still beating still beating
Breaking out of my body
and flying away
Like a bat out of hell”

Il basso imita il pulsare del cuore del protagonista, ormai pronto a volare “like a bat out of hell I’ll be gone when the morning come“. La musica è prepotente fino al gran finale con l’ennesimo urlo di Meatloaf: “Like a bat out of hell“.

Un brano epico, eroico, travestito da teen movie nel quale ogni frammento contribuisce ad arricchire il quadro generale ascolto dopo ascolto. Ogni volta c’è un nuovo dettaglio, un nuovo colore che emerge dalle strade infuocate di quell’America arida e polverosa. E non rimane altro da fare che schiacciare ancora una volta il tasto play per vedere sbucare dalle fiamme il nostro cavaliere in sella alla sua Harley diretto a tutto gas “like a bat out of hell” da lei “the only thing in this whole world that’s pure and good and right“.

Meat Loaf – “Bat Out of Hell”

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Happy Xmas (War is Over): sbattiamo la pace in prima pagina

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Happy Xmas (War is Over) è uno dei brani di Natale più famosi in assoluto ed è nato da un’idea molto attuale: se vuoi promuovere qualcosa, anche un concetto alto e puro come la pace nel mondo, la devi vendere “come fosse sapone”.

I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia… ci mettiamo un po’ di pace tanto per cambiare?

John Lennon lo spiega bene: «Marciare andava bene per gli anni Trenta. Oggi bisogna usare metodi diversi. Tutto ruota intorno a una sola cosa: vendere, vendere, vendere. Se vuoi promuovere la pace, devi venderla come se fosse sapone. I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia: non soltanto nelle notizie, ma anche nei vecchi film di John Wayne e in qualsiasi altro dannato film; sempre e continuamente guerra, guerra, guerra, uccidere, uccidere, uccidere. Così ci siamo detti: “Mettiamo in prima pagina un po’ di pace, pace, pace, tanto per cambiare… Per ragioni note soltanto a loro, i media riportano quello che dico. E ora sto dicendo “Pace”» (intervista tratta da: Philip Norman, “John Lennon, La Biografia”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2009)

HAPPY CHRISTMAS FROM JOHN AND YOKO

Nasce da questa idea “Happy Xmas (War is Over)un classico del repertorio delle festività natalizie a firma John Lennon e Yoko Ono. Una canzone composta come forma di protesta contro la guerra in Vietnam, pubblicata come singolo negli Stati Uniti il 6 dicembre del 1971 (in Europa arriverà un anno dopo).

Nel 1971 la guerra la guerra del Vietnam continuava da sedici anni, era passato già un anno dallo scioglimento dei Beatles e due dal matrimonio tra John Lennon e Yoko Ono. L’impegno pacifista di Lennon iniziò durante la loro luna di miele, il 25 marzo 1969 con il “bed-in” nella stanza 1902 dell’Hotel Hilton di Amsterdam. Una forma di protesta pacifica, ma dall’impatto mediatico fortissimo: una delle più celebri proteste nonviolente contro la guerra.

I due sposini avevano svuotato la stanza di tutti i mobili lasciando solo il letto e avevano invitato la stampa mondiale a registrare per 12 ore al giorno la loro protesta contro il Guerra del Vietnam, fino al successivo 31 marzo. John e Yoko rimasero fermi in pigiama per tutto il tempo, sollevando ancor più clamore e curiosità.

Nel Natale dello stesso anno lo slogan “War is overfu utilizzato per una campagna pubblicitaria che coinvolse dodici delle maggiori città del mondo, tra cui Roma, tramite l’affissione di gigantografie che annunciavano «War is over! If you want it. Happy Christmas from John and Yoko».

John Lennon: «Henry Ford aveva capito alla perfezione come si dovessero vendere automobili attraverso la pubblicità. Io attualmente sto occupandomi di vendere pace, e quello che stiamo allestendo io e Yoko non è altro che un’enorme campagna pubblicitaria che ha come scopo la “vendita” della Pace. Può anche far ridere la gente, ma nello stesso tempo la costringe a pensare a quello che stiamo dicendo. È come se in realtà noi fossimo “Coniugi Pace”» (Mark Addams, Lennoniana. Pensieri e parole di John Lennon, Blues Brothers, Milano 2010, p. 122). 

UNA RIVISITAZIONE DELLO STANDARD FOLK “STEWBALL”

Happy Xmas (War is Over) è ancora oggi un brano simbolo di pace che va mescolandosi con l’atmosfera natalizia; indissolubilmente legato a John Lennon, e Yoko Ono, anche se la melodia non è una sua composizione originale, ma è ripresa da uno standard folk dal titolo “Stewball”.

“Stewball” è una vecchia ballata della tradizione americana interpretata a partire dagli anni ’40 da molti artisti folk: da Woody Guthrie, al trio Peter Paul & Mary e gli Hollies. Il testo della canzone è di matrice fiabesca: racconta di un cavallo da corsa che beve sempre troppo vino.

Peter Paul & Mary – “Stewball”

Secondo il musicologo Peter van der Merwe “Stewball” risale ad una antica ballata “The noble Skewball”, rinominata in “Go from My Window” in epoca elisabettiana. Nel corso della storia diventò un canto di lavoro dei neri americani, con il titolo di “Go ‘Way F’om Mah Window” e il suo caratteristico andamento blues.

John Lennon ha mantenuto la melodia di “Stewball” cambiandone completamente il del testo e aggiungendo tipiche sonorità natalizie. “Stewball” si è cosi trasformata in “Happy Xmas (War is Over)”: una sorta di preghiera laica che invoca la pace.

Curioso pensare che anche “Jingle Bells”, altra celebre canzone natalizia, con il Natale non c’entra nulla: nella sua versione originale era un canto da osteria che raccontava di corse con le slitte trainate da cavalli. Ancora cavalli e ancora alcolici, ho raccontato la sua storia qui: La storia di Jingle Bells: come un canto d’osteria è diventato un classico del Natale.

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#ilDiscoDelMercoledì compie 3 anni

collage disco mercoledì

Quando tre anni fa ho pubblicato su Instagram la prima storia di questa rubrica non pensavo proprio di arrivare fin qui. Era un mercoledì e stavo ascoltando “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers.

È nata così la rubrica #ilDiscoDelMercoledì che tengo da novembre 2018 sul mio canale Instagram e che oggi arriva terzo giro di boa. Ogni settimana il mercoledì pomeriggio nelle “Storie” parlo di un disco, raccontando qualche curiosità, ascoltando qualche accenno dei brani più iconici e cercando di scoprire il perché della sua importanza all’interno dell’immenso universo musicale. E soprattutto lo faccio “vedere” in formato CD.

Il criterio di scelta è sempre lo stesso: quello che ho voglia di ascoltare. E lo condivido con voi.

La rubrica in tutti questi mesi anni è cresciuta e ha un suo seguito di affezionati fan che ringrazio di cuore per il costante interesse, come anche i tanti nuovi curiosi. Le “Storie” su Instagram durano solamente 24 ore, ma non preoccupatevi: sono tutte salvate nelle “Storie in evidenza” del profilo, potete quindi riguardarle e riascoltare tutti i 52 + 52 + 52 dischi del mercoledì. Sono 156 ormai!

Per i più curiosi riporto qui sotto la lista dei dischi di questo terzo anno, mentre quelle degli anni scorsi le potete trovare qui: #ilDiscoDelMercoledì compie 1 anno e #ilDiscoDelMercoledì compie 2 anni

Non mi resta quindi che augurare un… buon compleanno a noi!
Oggi è iniziato il quarto anno, vi aspetto su Instagram!

  1. The Beatles “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967)
  2. U2 “Boy” (1980)
  3. Zakk Wylde “Book of Shadows” (1996)
  4. Green Day “Basket Case” (1994)
  5. Michael Jackson “Dangerous” (1991)
  6. Danger Zone “Closer to Heaven” (2016)
  7. Children of Bodom “Hatebreeder” (1999)
  8. Overkill “Horrorscope” (1991)
  9. Prince “Musicology” (2004)
  10. The Jimi Hendrix Experience “Axis: bold as love” (1967)
  11. Elisa “Pipes & flowers” (1997)
  12. Fear Factory “Obsolete” (1998)
  13. Bruce Dickinson “The Chemical Wedding” (1998)
  14. Racer X “Superheroes” (2001)
  15. Syphony X “The Odyssey” (2002)
  16. U2 “The Joshua Tree” (1987)
  17. Franco Battiato “L’imboscata” (1996)
  18. Manowar “Kings of Metal” (1988)
  19. Marty Friedman “Inferno” (2014)
  20. Cranberries “To the Faithful Departed” (1996)
  21. Elio e le Storie Tese “Cicciput” (2003)
  22. Skid Row “Skid Row” (1989)
  23. Bob Dylan “Desire” (1976)
  24. Black Sabbath “Tyr” (1990)
  25. Franco Battiato “Mondi lontanissimi” (1985)
  26. King Diamond “The Eye” (1990)
  27. Inti-Illimani “Viva Chile!” (1973)
  28. Pain Of Salvation “Scarsick” (2007)
  29. Helloween “Walls of Jericho” (1985)
  30. Judas Priest “British Steel” (1980)
  31. Litfiba “El diablo” (1990)
  32. David Bowie “Hunky Dory” (1971)
  33. Kiss “Dynasty” (1979)
  34. Fabrizio De André “Nuvole” (1990)
  35. Death “Symbolic” (1995)
  36. ZZ Top “Chrome, Smoke & BBQ” (2003)
  37. Hot Hits Dance (1994)
  38. Nocturnal Rites “The Sacred Talisman” (1999)
  39. The Rolling Stones “Forty Licks” (2002)
  40. Ryuichi Sakamoto “1996” (1996)
  41. Nirvana “In Utero” (1993)
  42. Mr. Big “Bump Ahead” (1993)
  43. Blind Guardian “Imaginations from the other side” (1995)
  44. Angelo Branduardi “Futuro antico” (1996)
  45. Joe Satriani “Flying In A Blue Dream” (1989)
  46. Il Balletto di Bronzo “YS” (1972)
  47. Frank Zappa “Hot Rats” (1969)
  48. Cradle of Filth “Midian” (2000)
  49. Deep Purple “Deep Purple in Rock” (1970)
  50. Stéphane Grappelli “I Hear Music” (2003)
  51. U2 “Achtung Baby” (1991)
  52. Brian May “Back to the Light” (1992)


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Hotel California: gli Eagles “Ai confini della realtà”

california panorama

Esistono delle regole non scritte quando si impara a suonare uno strumento. Certo, si comincia con le scale da memorizzare, gli accordi, i groove e gli accompagnamenti. Ma, oltre alle basi di teoria e tecnica, ci sono dei passi “obbligati” che variano da strumento a strumento. Credo non esista pianista che non conosca “Per Elisa” e il tema de “L’inno alla gioia” o batterista il 4/4 degli AC/DC (una volta che ne hai imparato uno suoni tutta la discografia, anche se è un’impresa darne il giusto tiro!).

Il chitarrista, soprattutto quello più nostalgico, nella sua strada sicuramente incontrerà “Hotel California”, il capolavoro degli Eagles.

Il brano esce il 22 febbraio del 1977 come singolo, ma è già presente nell’album omonimo pubblicato l’8 dicembre 1976. A quel tempo gli Eagles erano una band di successo di livello internazionale. Dal primo album, pubblicato nel 1972, a “One of these Nights” del 1975 la loro parabola era in costante ascesa, sia in termini di critica che di pubblico.

C’erano ovviamente delle tensioni. L’iniziale Country Rock della band stava pendendo sempre più verso un Rock tout court sollevando alcuni malumori, tanto che il chitarrista Bernie Leadon decise di lasciare la band, insoddisfatto della nuova direzione del gruppo. A sostituirlo fu Joe Walsh, di formazione più tipicamente rock.

La musica di “Hotel California” fu scritta dal chitarrista Don Felder, compositore principale del gruppo, soprattutto per l’aspetto strumentale. Felder era solito registrare una versione “demo” dei brani con un registratore 4 piste, in modo che potessero essere inserite tracce di batteria, chitarra e basso. A questo punto la palla passava a Don Henley e Glenn Frey, che avrebbero lavorato sui testi.

Fin dall’inizio il brano era intrigante con un incedere quasi latin, per dirla come Felder “like a Mexican reggae or Bolero”. Il titolo provvisorio, infatti, fu “Mexican Reggae”

“AI CONFINI DELLA REALTÀ”

Henley ebbe l’idea dell’hotel California come di un simbolo, una riflessione sulla città dei sogni. Centro nevralgico del mercato musicale, discografico, del cinema e dell’arte in generale e dove questi stavano perdendo parte della loro purezza e innocenza. Frey poi pensò di rendere la storia raccontata nel brano simile ad una puntata della serie televisiva di fantascienza “Ai confini della realtà” (The Twilight Zone). Una divisione tra mondo del sogno e mondo reale vaga, misteriosa e appannata.

Il testo, narrato in prima persona, ha per protagonista un viaggiatore che, stanco per il lungo viaggio in autostrada, si ferma in un hotel e viene accolto all’ingresso da una ragazza.

Arrivato in camera comincia a perdere la percezione di cosa sia vero e cosa sia, invece, un sogno. Il protagonista viene risucchiato in questa visione al confine tra incubo e follia e, mentre cerca di scappare, un misterioso personaggio (il “nightman”)  gli dice:

Relax, said the nightman, we are programmed to receive. You can check-out any time you like but you can never leave!

Rilassati – disse il portiere di notte – qui siamo programmati per accogliere. Puoi lasciare la stanza e pagare quando vuoi, ma non potrai mai andartene.

Il testo ricorda molto quello de “La donna, il sogno e il grande incubo” degli 883 (o meglio, viceversa). Le interpretazioni, nel corso degli anni, sono state le più disparate. Dalla metafora sulla dipendenza da alcool e droga all’allegoria del manicomio Camarillo, in California, alla immancabile interpretazione “satanica”. 

Quello menzionato nel brano sarebbe infatti l’hotel acquistato dal satanista americano Anton LaVey, fondatore della “Chiesa di Satana”, e il verso che lo proverebbe è: “They stab it with their steely knives, but they just can’t kill the beast” (L’hanno pugnalato con i loro coltelli d’acciaio, ma non riuscirono ad uccidere la bestia). Alcuni pensano addirittura che nella foto all’interno del vinile dell’album sia presente LaVey affacciato ad una finestra.

L’edificio in realtà è il Beverly Hills Hotel, conosciuto anche come Pink Palace, costruito nel 1912 e situato al 9641 di Sunset Boulevard, a Los Angeles.

La registrazione fu travagliata da ostacoli e complicazioni. Inizialmente la band incise il brano in una tonalità troppo alta per la voce di Hensley. Risolta la questione, la seconda esecuzione fu ritenuta troppo veloce. Per la registrazione finale fu eseguito un lavoro complesso di editing per far suonare al meglio il brano, ma ne valse la pena. Come se non bastasse, nello studio adiacente i Black Sabbath stavano registrando il loro settimo album (“Technical Ectasy”) a volume talmente elevato da sovrastare anche lo studio degli Eagles. Dovettero aspettare che Iommi e soci completassero le loro take per poter mettersi all’opera. 

“Hotel California” è iconica anche per l’assolo di chitarra, uno scambio con duetto finale tra Joe Walsh e Don Felder, che dovettero provare assieme tre giorni per trovare la giusta intesa e precisione.

Una volta pubblicato, il brano divenne un successo clamoroso, il capolavoro della band che, da lì in avanti, verrà sempre identificata con “Hotel California”. L’incredibile fortuna della band fu un’arma a doppio taglio: il trionfo nelle classifiche mondiali portò il gruppo ad una totale crisi creativa, tensioni, abbandoni e ad un veloce decadimento e scioglimento (poi rattoppato da una reunion a metà anni ’90).

L’eco di “Hotel California” non è mai passato, la cultura di massa brama ancora di essere accompagnata in quel luogo misterioso, pericoloso, ma dal fascino irresistibile; di perdersi tra i corridoi e le stanze di un passato mitico e leggendario evocato da questa canzone ormai iconica.

Eagles “Hotel California” (Live At The Capital Centre, 1977)
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La storia del Rock in una canzone

Era il 1979 quando Neil Young pubblicò “Rust Never Sleeps”, la ruggine non dorme mai. Un titolo che già sa di leggenda per un disco che si apre con il brano My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue): in pochi versi Neil Young riassume la storia del Rock, la sua filosofia e il suo futuro.

“The King” is gone but he’s not forgotten
This is the story of a Johnny Rotten
It’s better to burn out than fade away
“The King” is gone but he’s not forgotten
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ROCK AND ROLL IS HERE TO STAY

Siamo alla fine degli anni ’70 e il Rock ha alle spalle un glorioso passato, ha radici ben salde, ma il tempo passa inesorabilmente con il rischio di arrivare alla “corrosione” artistica. Non per il Rock, non per la vera essenza del Rock, per la sua energia primitiva che sta alla sua base ed è la sua salvezza. Il Rock è come la ruggine e “non dorme mai”.

My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) che apre la prima facciata del disco, viene riproposta in versione elettrica alla fine, con il titolo cambiato in My, My, Hey, Hey (Into The Black) e il testo leggermente modificato. Neil Young voleva sparare in faccia all’ascoltatore tutta l’energia debordante del Rock a volumi assordanti. Nel mondo del Rock se devi dire qualcosa devi dirlo forte, potente e devi dirlo presto.

“THE KING” IS GONE BUT HE’S NOT FORGOTTEN

A Neil Young l’ispirazione per questo brano arrivò sull’onda emotiva della morte di Elvis Presley avvenuta due anni prima, 16 agosto 1977. È il lui “il Re” che se ne è andato, ma che non potrà mai essere dimenticato, come canta nel verso “The King” is gone but he’s not forgotten. La storia del Rock nasce con lui: tutto cominciò da Elvis Presley che si agitava selvaggiamente scuotendo il bacino a ritmo indiavolato.

Erano gli anni Cinquanta ed Elvis svegliò l’America del Dopo Guerra. Era ribelle, irriverente, spudorato e il Rock divenne la colonna sonora di una generazione e di trasformazioni sociali che sono arrivate fino ad oggi.

La nascita del Rock’n’Roll fu la risposta diretta alla nascita di un nuovo soggetto sociale: i giovani. Oggi siamo abituati a considerare i giovani come un mondo con gusti e comportamenti propri, ma prima di allora non era così. Prima della metà degli anni Cinquanta ai giovani non era riconosciuta autonomia culturale e per la prima volta in assoluto nella storia nacque una musica rivolta esclusivamente a loro: ne rivendicava una propria identità, in conflitto con il resto della società.

Stanchi delle consuetudini e con un grande desiderio di libertà, i giovani cominciarono a stabilire proprie regole nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle relazioni sociali e nella musica. Iniziano a scegliere una musica in grado di esprimere i loro desideri. Il Rock’n’Roll nasce dal conservatorismo della Country Music e l’energia ribelle del Rhythm’n’Blues: incarnava l’ambivalenza che sentivano i giovani di allora, divisi tra un distaccamento dal modello parentale conformista e la sfiducia nei simboli del benessere.

I giovani diventano un soggetto sociale ben definito e soprattutto un nuovo soggetto economico da intercettare. L’interesse dei pubblicitari puntò presto verso questa nuova fascia di popolazione in grado, molto più che in passato, di spendere e consumare.

THIS IS THE STORY OF A JOHNNY ROTTEN

Anche se “la ruggine non dorme mai” di acqua sotto i ponti del Rock ne è passata tanta. Con Neil Young e My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) siamo nel 1979, siamo nel momento della storia in cui arriva il Punk a dare uno scossone allo star system del Rock.

“No future” cantavano i Sex Pistols. Nessun futuro, nessuna speranza. Mentre il 16 agosto 1977 Elvis, il Re, si spegneva nella sua dorata Graceland, in Inghilterra esplodeva il Punk. Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, con tutta la sua carica nichilista e ribelle, faceva a pezzi il mondo di lustrini e paillette che il Rock non era riuscito a distruggere.

Il Punk è il Rock’n’Roll di una generazione senza sogni e senza speranze, che non vede la possibilità di un futuro migliore e prova a cantare la propria rabbia mettendo da parte le buone maniere, scardinando le regole dello show-business.

Con Woodstock e la fine degli anni Settanta era finita l’era d’oro del Rock. Chiusa la fucina dei grandi ideali e delle rivoluzioni, arrivò l’industria discografica con il chiaro obiettivo di capitalizzare il Rock. Il Rock degli anni Settanta con la sua forza comunicativa era riuscito ad abbattere molti muri e si era conquistato un posto di primo piano nel panorama culturale e dello spettacolo. Celebrava il suo trionfo cambiando pelle ed entrando a patti con la cultura di massa.

IT’S BETTER TO BURN OUT THAN TO FADE AWAY

Neil Young canta di uno spirito ribelle che nonostante tutto non si arrugginisce, canta il timore di un conservatorismo artistico da cui è possibile salvarsi mantenendo viva l’energia primitiva del Rock. E curiosamente My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) è entrata nella leggenda della storia del Rock anche perché è legata a filo doppio ad un gruppo ed un genere musicale che per molti ha ucciso il Rock: il Grunge dei Nirvana.

Elvis inizia la sua carriera nel 1954 e 40 anni dopo nell’aprile del 1994 Kurt Cobain, leader dei Nirvana, si suicidò. Nella lettera d’addio scritta poco prima di togliersi la vita e trovata accanto al suo corpo, Cobain cita esplicitamente un verso di questa canzone:

Tutti gli avvertimenti della scuola base del punk-rock che mi sono stati dati nel corso degli anni, dai miei esordi, come l’etica dell’indipendenza e della comunità si sono rivelati esatti. Non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (…) A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco (…) e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. (“It’s better to burn out than to fade away”)

Ma il Rock è imprevedibile: nel corso della sua storia sono nati tantissimi generi e sottogeneri, dai più commerciali ai più estremi. Cambia pelle, si evolve e il suo spirito ribelle non morirà mai perché, come canta Neil Young: la ruggine non dorme mai.

Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye

My my, hey hey
Rock and roll is here to stay
It’s better to burn out than to fade away
My my, hey hey

Out of the blue and into the black
You pay for this, but they give you that
And once you’re gone, you can’t come back
When you’re out of the blue and into the black.

The king is gone but he’s not forgotten
Is this the story of Johnny rotten?
It’s better to burn out than it is to rust
The king is gone but he’s not forgotten.

Hey hey, my my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye.
Hey hey, my my.

Bibliografia:
Ernesto Assante e Gino Castaldo “Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano”, Einaudi, 2004.

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Un “amore proibito” tra Sakamoto e David Bowie

Esistono musiche senza tempo. Brani dei quali si fatica a capire l’origine: possono essere stati scritti secoli fa o nel futuro più lontano, rimanendo intatti nella loro attualità e bellezza. Melodie che poco importa se nate da Bach, Pink Floyd, Mozart o U2. Rimangono costantemente nuove, capaci di smuovere forti emozioni.

Temi come “Also spracht Zarathustra” di Richard Strauss, “La Cura” di Franco Battiato (di cui ho scritto qui) o come “Forbidden Colours” di Ryuichi Sakamoto.

Nato a Tokyo, nel 1952, Ryuichi Sakamoto coniuga alla perfezione, come ogni buon giapponese, il nobile passato del Sol Levante con il futuro più ciberneticamente tecnologico. La sua formazione ed estrazione oscilla tra il Jazz e l’elettronica; basti pensare alla sua band d’esordio, la “Yellow Magic Orchestra”, un gruppo pioniere nella sperimentazione musicale, che anticipa le sonorità quantizzate e computerizzate divenute il marchio di fabbrica degli anni ’80, i suoni a 8 bit del mondo dei videogame e incalzanti sequenze musicali saccheggiate negli anni a venire nell’universo degli anime.

Allo stesso tempo, come un giardino zen a due passi dalla megalopoli, ecco una poetica e una musicalità fortemente debitrice alla musica tradizionale giapponese con le sue delicate, trasparenti melodie e i suoi strumenti misteriosi, come il koto o lo shamisen.


Il film: Merry Christmas Mr. Lawrence

Dopo diversi lavori negli anni ‘70 con la band e ad inizio anni ‘80 anche in veste solista, ecco la svolta. Tutto grazie a un film, “Merry Christmas Mr. Lawrence” (in italiano “Furyo”, uscito nel 1983 e da Nagisa Oshima), nel quale Sakamoto ebbe doppio ruolo di compositore della colonna sonora e, inaspettatamente, attore. 

Accanto a lui nella pellicola un partner d’eccezione, uno dei grandi geni della musica rock di tutti i tempi: David Bowie. Il cantante, musicista e attore britannico è all’apice del suo genio talmente esplosivo da non limitarsi alla sola musica, ma riuscendo a passare dal Rock al cinema con disinvoltura e credibilità tra un disco e l’altro.

“Non ho mai intrapreso la carriera di attore, non è mia intenzione, ma è un dato di fatto che ho recitato in un film per la prima volta con David Bowie, che è stato fantastico. Ed è stata la mia prima musica da film. Due cose veramente nuove arrivate nello stesso momento. Ho Lavorato con David Bowie per un mese, ogni giorno, su una piccolissima isola nell’Oceano Pacifico meridionale. Per un mese!” (Ryuichi Sakamoto)

Ryuichi-Sakamoto e David-Bowie sul set del film

La storia di “Merry Christmas, Mr. Lawrence” riguarda un amore proibito, un “forbidden colour”, tra il capitano Yonoi (interpretato da Sakamoto), a capo di un campo di prigionia giapponese nel 1942, e il prigioniero neozelandese Jack Celliers (David Bowie).

Trama e musica si legano semanticamente all’espressione giapponese “kinjiki”, dove “kin” sta per “illecito” e “jiki” può significare al tempo stesso “colore” e “amore fisico”.


La colonna sonora: Forbidden Colours

Una collaborazione musicale tra i due grandi artisti sembrava dietro l’angolo, aiutata dal clima di amicizia e rispetto reciproco che si era creato nel set. Tuttavia Bowie non interverrà nella colonna sonora del film, ancora da definire durante le riprese:

“Non avevo ancora iniziato a lavorarci, ero totalmente concentrato sulla recitazione. Ho anche esitato a chiedere a David di lavorare con me sulla musica in quel momento, perché sembrava molto concentrato sulla recitazione”. (Ryuichi Sakamoto)

Sarà un amico di Sakamoto, David Sylvian, cantante britannico come Bowie, a prendere in mano le redini del brano e a trasformarlo in quello che conosciamo ora. Esponente del Glam Rock con la band Japan (ennesima coincidenza), nel 1983 Sylvian è in totale crisi creativa dopo lo scioglimento del gruppo.

Ryuichi Sakamoto & David Sylvian “Forbidden Colours”

“Non ero sicuro in quale direzione muovermi. Non ho scritto nulla per po’ di tempo ed era insolito per me. Poi Ryuichi mi ha dato “Forbidden Colors” su cui lavorare. All’improvviso il flusso di scrittura ha iniziato scorrere e nuovo materiale ha iniziato ad arrivare”. (David Sylvian)

Sylvian cominciò a lavorare al brano, a costruirci un testo enigmatico, carico dei dubbi e dei sentimenti dell’artista e, allo stesso tempo, quasi inafferrabile, come fosse anch’esso un “forbidden colour”. Definì una linea vocale sulla quale la sua voce, calda e baritonale, potesse muoversi attorno al tema portante senza involgarirlo, una melodia che sottostà alla bellezza del tema musicato da Sakamoto.

Ryuichi Sakamoto & David Sylvian

Un rispetto tipico della cultura orientale, una delicatezza artistica che valorizzerà il brano e che porterà al successo entrambi gli artisti. Sia Sylvian che Sakamoto, musicisti lontani dai meccanismi per certi versi discutibili del music business, incideranno più volte e in più versioni “Forbidden Colours”. Un brano profondo e toccante, senza tempo, affascinante e sfuggente come un colore proibito.

Ryuichi Sakamoto “Forbidden Colours” (piano solo)
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Tu scendi dalle stelle, la storia del canto di Natale italiano più famoso

Non è Natale senza le canzoni di Natale. Possono suonarci antiquate e superate, possono averci stancato o irritarci in qualche remix improbabile, ma nel periodo di Natale non possono e non devono mancare. Che Natale sarebbe senza “We Wish You a Merry Christimas” o “Jingle Bells”?

Spesso queste canzoni ormai entrate nella tradizione nascondono storie incredibili, alle volte non prettamente natalizie, come nel caso di “Jingle Bells” di cui vi ho parlato qui. E anche “Tu scendi dalle stelle”, la canzone di Natale italiana più famosa in assoluto, nasconde una storia tutta da scoprire.

“Tu scendi dalle stelle” è un canto composto nel Settecento in lingua napoletana da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Il titolo era “Quanno Nascette Ninno”. Partiamo dall’inizio della storia.

Alfonso Maria de’ Liguori è nato a Napoli nel 1696 e fin da piccolo dimostrò doti particolari immatricolandosi all’Università di Napoli a soli 12 anni, dopo aver sostenuto un esame di Retorica con il filosofo e storico Giambattista Vico. Diventò vescovo e fondò la Congregazione del Santissimo Redentore. È stato un importante teorico della Chiesa e autore di importati testi di teologia morale che ne hanno fatto la massima autorità riconosciuta nel mondo cattolico per oltre un secolo. De’ Liguori diventò poi santo nel 1839 sotto il papato di Gregorio XVI.

Sant’Alfonso Maria De’ Liguori

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è stato anche un apprezzato poeta e musicista, a sua firma troviamo diversi componimenti tra cui il celeberrimo canto di Natale “Tu scendi dalle stelle” composto nel 1754 durante la sua permanenza a Deliceto, in provincia di Foggia, che in origine scrisse in lingua napoletana e si intitolava Quanno Nascette Ninno”. Un canto che racconta la nascita di Gesù e che potesse così essere compreso anche dai fedeli napoletani.

Per questo motivo la storia si complica e c’è chi sostiene che il luogo di nascita della canzone sarebbe in realtà Nola, in provincia di Napoli. Sant’Alfonso avrebbe composto qui la canzone e l’avrebbe poi mostrata ad un canonico che la ricopiò di nascosto. Il misfatto fu smascherato durante la prima esibizione della canzone: Sant’Alfonso avrebbe fatto finta di dimenticarsi il testo chiedendo aiuto proprio a lui e screditandolo di fronte ai presenti.

Il pentagramma originale è conservato al Santuario di Santa Maria della Consolazione di Deliceto nella stanza dedicata a Sant’Alfonso e ogni anno è meta di migliaia di pellegrini da tutti il mondo.

Quanno nascette Ninno a Bettlemme
Era nott’ e pareva miezo juorno.
Maje le Stelle – lustre e belle
Se vedetteno accossí:
E a cchiú lucente
Jett’a chíamma’ li Magge all’Uriente.

“Quanno Nascette Ninno” è una poesia molto ispirata che racconta l’eccezionalità di questo santo evento. Composta in sette strofe di sei versi ciascuna, la versione originale di “Tu scendi dalle stelle” manifesta con l’utilizzo della popolare lingua napoletana la struggente tenerezza con cui Sant’Alfonso celebra la nascita di Gesù. Già dall’utilizzo di “ninno” termine probabilmente derivato dallo spagnolo niño che in napoletano significa “bambino” e spesso veniva utilizzato al posto del nome, anche con il vezzeggiativo “nennillo”.

“Quando nascette Ninno” ebbe un grande riscontro e successo popolare, fu pubblicato nel 1816 con il titolo “Per la nascita di Gesù” subendo negli anni varie modifiche e riedizioni che lo hanno poi trasformato nella famosissima “Tu scendi dalle stelle” che oggi conosciamo.

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Louie Louie: come incisioni sbagliate e indagini dell’FBI creano un classico

Non si sa bene come mai alcune canzoni diventino dei classici, dei punti di riferimento o meglio degli standard. Siamo abituati a vivere l’effetto tormentone dai tempi del Festivalbar e poi con Sanremo o un Disco per l’Estate.

Cos’hanno questi brani di speciale rispetto ad altri che sembrano di pari valore ed efficacia? Questione di alchimia tra voce e strumenti? Una formula segreta nella costruzione delle canzoni? O semplice fortuna ed il classico “essere al posto giusto nel momento giusto”?

Alcuni brani diventano così popolari ed eseguiti da così tanti artisti che si fatica a trovare la prima incisione e, come con un filo di Arianna musicale, bisogna orientarsi nel labirinto alla ricerca della prima e originale esecuzione. Il titolo del brano “Louie Louie” potrebbe non dirvi niente. Se però provate a cercarlo su Youtube o Spotify e premere il play alla prima versione che trovate probabilmente un lampo di comprensione vi si accenderà negli occhi. 

Si dice che di “Louie Louie” ne siano state registrate più di 1500 versioni diverse dagli artisti più disparati: da Bob Dylan ai Beach Boys, da David Bowie a Lou Reed, fino a versioni più “estreme” ad opera dei Led Zeppelin o dei Motorhead. Frank Zappa ne userà il giro di accordi per tutta la carriera come intermezzo dove parlare, interagire con il pubblico, portare scompiglio nel perbenismo della società americana. La lista è sterminata: si dice addirittura che una radio californiana ne abbia passato diverse versioni per 63 ore consecutive senza mai che se ne ripetesse una.


Qual è la storia di questo pezzo?

La versione attuale di “Louie Louie” rispecchia quasi le antiche storie tramandate oralmente, nelle quali ogni nuovo “narratore” aggiungeva un dettaglio personale, qualcosa che prima non c’era ma che sarà poi preso come “vero” dal “narratore” successivo. E così via per generazioni, portando la vicenda a trasformarsi nel corso degli anni, a crescere e in parte a perdere il proprio messaggio originale o a modificarlo a seconda delle epoche e delle culture.

L’autore è Richard Berry, ispirato, anche molto pesantemente, dal riff di un altro brano: “El loco Cha cha” di René Touzet.

René Touzet “El loco Cha cha”


Anche l’arrangiamento e il testo si rifanno ad una moda dell’epoca, debitrice allo stile “Calypso”, un genere musicale appartenente alla cultura afroamericana delle isole dei Caraibi. Uno stile denso di rancori sociali e politici di protesta da parte degli schiavi, i cosiddetti “calypsos” tanto che le autorità interverranno spesso censurando queste musiche.

La situazione cambierà con l’album di Harry Belafonte del 1956, chiamato appunto “Calypso”, contenente la hit famosissima “Banana Boat Song“. L’addolcimento delle tematiche di protesta porterà il disco a un successo mondiale e lancerà una vera e propria moda per l’esotismo caraibico.

Tematiche calypso erano già state utilizzata dalla vecchia volpe di Chuck Berry con “Havana Moon“, Richard Berry con “Louie Louie” semplicemente si inserisce nella scia di questa tendenza.

Richard Berry “Louie Louie” (1957)


Il testo parla di un marinaio che è da tre giorni in viaggio su una nave in Giamaica e non vede l’ora di tornare a casa dalla sua Louie che lo sta aspettando. Nel 1957 “Louie Louie” di Richard Berry viene pubblicata come B-side, ennesima dimostrazione di come alcuni riempitivi spesso non sono quello che sembrano (“Paranoid” e “Smoke on the Water” insegnano) e avrà un buon successo tanto da essere ripubblicato come singolo. Le vendite di questa riedizione però saranno deludenti, convincendo, un paio d’anni dopo, l’autore a cederne i diritti all’etichetta Flip Records.

La storia di “Louie Louie” ovviamente non finisce qui. Il brano verrà ritrovato casualmente da Rockin’ Robin Roberts che ne 1960 la coverizzerà (con qualche lieve aggiunta al testo) ottenendo un discreto successo, soprattutto nella scena di Seattle.

Rockin’ Robin Roberts “Louie Louie” (1960)


Proprio questa cover sarà da ispirazione per la versione più famosa di “Louie Louie”, ad opera dei The Kingsmen, una band emergente di Portland, nell’Oregon. Il gruppo diede al pezzo una leggera spinta Rock’n’Roll eliminando l’arrangiamento Doo-Wop della “versione originale” e registrandola in maniera un po’ pasticciata. Sono presenti alcuni cambiamenti nel ritmo, anche un piccolo errore con un attacco sbagliato alla fine dell’assolo di chitarra, mentre la voce cantilenante del leader della band, Jack Ely, forse per abuso di stupefacenti o comunque per motivi non ancora chiariti, rende praticamente incomprensibile il testo.

Kingsmen “Louie Louie” (1963)


Nonostante il testo non presentasse alcun contenuto osceno, la pronuncia biascicata dei Kingsmen porterà gli ascoltatori a chiedersi quali fossero le vere parole del testo, gli adolescenti scrivevano e facevano girare tra amici quello che secondo loro era il vero significato del brano. Ovviamente questo mistero porterà le autorità americane all’intervento per censurare il brano. L’FBI istituì addirittura un’indagine e, nonostante i 31 mesi di ricerche e investigazioni, tutto si concluse con la motivazione che non erano stati capaci di interpretare nessuna delle parole del testo. 

Inizialmente la versione dei Kingsmen non ottenne un grande successo. Le cose cambiarono quando fu scelta come “peggior incisione della settimana” in un programma radiofonico di Boston. Una sorta di “effetto trash” in versione anni ’60. Il brano ebbe un successo inaspettato tanto da sbaragliare il competitor, Paul Revere & the Raiders, che aveva proposto la propria versione di “Louie Louie” nello stesso periodo con addirittura una promozione maggiore.

Da allora il brano non si è più fermato e l’11 aprile, il compleanno di Richard Berry, viene celebrato come l’International Louie Louie Day.

Motörhead “Louie Louie” (1978)
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“Un’estate al mare” non è così banale

Un’estate al mare
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni
Un’estate al mare
Stile balneare
Con il salvagente
Per paura di affogare

“Un’estate al mare” è un evergreen che ogni anno torna, puntuale, tormentone d’agosto. Una canzone dal sapore d’antico che racconta un quadretto estivo semplice e disimpegnato: quella voglia di vacanze, di giornate spensierate al mare “per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni”.

Una canzone che conosco tutti, forse anche senza sapere chi fosse a cantarla. Può ricordare gli anni Sessanta, ma è stata pubblicata nel 1982 da Giuni Russo, nome d’arte della palermitana Giuseppina Romeo. Una delle voci italiane più belle di sempre dall’incredibile estensione vocale di quasi cinque ottave, che ha unito il canto lirico al Pop.

“Un’estate al mare” è stato uno dei suoi più grandi successi e nasconde molte sorprese. Musica e testo sono stati scritti da Franco Battiato insieme a Giusto Pio come parodia e rovesciamento dei classici temi di una canzone estiva. Forse non abbiamo mai prestato la dovuta attenzione al testo: in realtà parla di una prostituta che sogna di andare al mare e di mettere in pausa per un po’ la sua vita difficile.

Chi se non Battiato avrebbe potuto inserire in una canzone versi come «Per regalo voglio un harmonizer con quel trucco che mi sdoppia la voce» oppure «Senti questa pelle com’è profumata, mi ricorda l’olio di Tahiti». È la sua firma, surreale e inimitabile. Franco Battiato partecipa anche all’incisione cantando come seconda voce in due parti del brano.

L’incontro tra Franco Battiato e Giuni Russo avviene nel 1981 grazie al chitarrista e produttore Alberto Radius. Battiato, insieme al violinista e direttore d’orchestra Giusto Pio, realizza per Giuni Russo musiche e testi del suo album “Energie” (1981), un disco all’insegna della sperimentazione e con un uso rivoluzionario della voce unica di Giuni.

Mi colpì la sua voce straordinaria, la vitalità con cui cantava, la sua potenza vocale che andava di pari passo con la sensibilità musicale.

Franco Battiato

Un sodalizio che ha dato risultati eccellenti. “Un’estate al mare” balzò in vetta alle classifiche, ebbe un clamoroso successo di vendite ed è ancora oggi una delle colonne sonore imprescindibili delle estati italiane. Eppure, nelle intenzioni dei suoi autori era nata per deridere le canzonette estive: vengono ripresi tutti i più banali cliché delle tipiche vacanze estive (mare, spiagge, ombrelloni, salvagenti, olio solare), creando una cornice in cui inserire una storia totalmente diversa e amara.

La vacanza al mare diventa la speranza di una breve normalità per una donna costretta a prostituirsi. Il primo verso di “Un’estate al mare” recita: “per le strade mercenarie del sesso che procurano fantastiche illusioni” e una banale vacanza al mare diventa un miraggio, un sogno sospirato “nelle sere quando c’era freddo, si bruciavano le gomme di automobili”.

Il parallelo tra la triste realtà da un lato e la vacanza sognata dall’altro viene reso anche da un raffinato arrangiamento musicale: la parte iniziale è cantata un’ottava bassa per poi liberarsi nel ritornello in stile Twist-Pop e dare spazio all’eccezionale estensione vocale di Giuni Russo. La sua voce sembra salire sulle ali della brezza marina e raggiunge altezze da capogiro nel finale del pezzo dove con la sua voce, senza aiuti tecnologici, riesce a riprodurre l’acutissimo garrito dei gabbiani.

Il pezzo, che doveva essere solo una parentesi commerciale, si tramutò nella gabbia dorata di Giuni Russo. Un’artista ricercata, d’avanguardia, elegante, colta e pop allo stesso tempo, capace con grande ironia di riempire di messaggi subliminali i suoi brani.

Quando vedevo la canzone salire in Hit Parade non credevo ai miei occhi – confessò la cantante in un’intervista – non mi aspettavo che riscuotesse un successo così strepitoso. Per fortuna ho un carattere solido, non mi sono fatta inebriare. Ancora oggi la considero una parentesi felice e niente di più. Io avevo voglia, e ho ancora voglia, di proseguire la mia ricerca vocale, di spaziare in musicalità nuove, diverse e così ho fatto. Certo non ho avuto le stesse spinte, la stessa promozione avuta per “Un’estate al mare”

Giuni Russo “Un’estate al mare” (1982)