Se
vi dicessi che il Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che la musica non va
insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni» mi credereste?
È tutto vero. Siamo nel 1865 e Francesco De Sanctis, Ministro dell’Istruzione nel 1861, consigliò al suo successore Giuseppe Natoli dalle colonne del giornale “L’Italia” di non insegnare alcune materie ritenute superflue e ne elencava alcune tra cui il Francese, la ginnastica e “il ballo” ad indicare con spregio la Musica.
Tutta questa roba, non bisogna, non si può digerire, non fa valentuomini, ma buffoni. Quello che i giovanetti debbono saper bene è la loro lingua, scriverla correttamente, esprimere i loro pensieri con ordine e semplicità; poi saper la storia e la geografia, l’aritmetica, la geometria e principi di algebra. […] Il necessario per i giovanetti non sono le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto, di fermarsi su le cose, di considerarle per ogni verso. Acquistato quest’abito, acquistato il giudizio, si vola poi sopra tutto il sapere, si comprende facilmente, si legano insieme le cognizioni che si vengono acquistando.
Il testo fu ripubblicato nel libro di Francesco De Sanctis “L’istruzione media. Omaggio alla casa editrice Laterza nel X Congresso della Federazione Nazionale fra gl’insegnanti delle Scuole Medie” (Laterza, 1919). Per De Sanctis, gli alunni non devono acquisire «le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto»: la musica e le discipline artistiche in generale, secondo il letterato, non si confanno a tale scopo. O meglio, leggendo per intero l’articolo, il senso del discorso di De Sanctis era che per voler insegnare troppo, si rischia di finire per non insegnare nulla.
Sono passati 155 anni, alcune materie si sono attivate, ma certi pregiudizi non sono molto cambiati. Fare il musicista non viene considerato come un mestiere, ma un hobby, un passatempo, un capriccio, una sorta di moderno giullare alla mercé delle corti televisive. La Musica non è arte: è un sottofondo sonoro delle nostre giornate, la colonna sonora di viaggi in auto, qualcosa da canticchiare sotto la doccia.
In realtà lo sappiamo che la Musica è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero addirittura essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse la colpa è di alcuni buffoni che riempiono le pagine dei giornali e dei programmi televisivi che si nutrono di scandali e gossip, aumenta lo share e aumenta il fatturato.
Dovrebbe cambiare il modo di approcciarsi alla Musica cercando di capirla per il suo valore: da un ascolto passivo passare ad un ascolto attivo. Il significato della Musica non sta solo negli oggetti musicali, ma in ciò che la gente fa con la musica: come la sia ascolta, come la si suona e perché. Studiare la Musica non è solo studiare la storia delle opere e dei grandi nomi: è la storia degli uomini che hanno fatto, ascoltato e parlato di musica.
Parlare di musica è parlare della società di ieri e di oggi. Parlare di Musica è parlare di storia, di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Ma anche di matematica, geometria, scienza, filosofia, psicologica, medicina… Ci si potrebbe basare un intero programma scolastico!
È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di ascoltare (audio) osservare (video) imparare (disco).
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Non c’è bisogno di presentazioni “Perché Sanremo è Sanremo” recitava un vecchio jingle pubblicitario. È “il” festival per eccellenza, il momento in cui gli italiani da esperti di politica e allenatori di calcio diventano critici musicali. Durante la settimana di Sanremo tutto ruota intorno a Sanremo: polemiche, provocazioni, vallette, abiti e la musica è quasi un sottofondo. Tutto nella norma, perché scandalizzarsi ogni anno?
Sanremo è “lo specchio della nazione” ed è spesso oggetto di studio non tanto come fenomeno musicale, ma come fenomeno di costume e “specchio” di qualcos’altro. Raccontando i suoi 70 anni di vita si potrebbe raccontare l’Italia perché Sanremo è l’emblema della società italiana; la storia della Musica non è solo la storia delle opere, delle canzoni e dei grandi nomi: è la storia delle persone che hanno fatto, ascoltato e parlato di Musica.
Spesso si dimentica il sottotitolo del Festivàl e molte polemiche sono legate all’esclusione di determinati generi e alla “classicità” delle canzoni in gara, ma Sanremo è il festival della canzone italiana, anzi ha avuto un ruolo determinante nella costruzione dell’idea di canzone italiana che ci è familiare oggi.
Il primo articolo che il Radiocorriere ha dedicato a Sanremo nel 1951 alle porte della prima edizione lo descriveva proprio come un’iniziativa volta a valorizzare la canzone italiana «il cui intento principale è quello di promuovere un elevamento nel campo della musica leggera italiana, compatibilmente con i presupposti “popolari” propri del genere in se stesso. (…) Con una serie di iniziative, la Rai cerca appunto di promuovere la rinascita di uno spirito veramente attivo nella canzone italiana e l’acquisizione di una individualità spiccata, indirizzando in tal senso gli autori e gli editori musicali».
Il senso della manifestazione, come è noto, è quello di valorizzare ed elevare qualitativamente le espressioni della musica leggera del nostro paese.
Nunzio Filogamo, presentazione della seconda edizione del Festival di Sanremo, 1952
Quando nacque l’idea del Festival, Sanremo era mal ridotta: il teatro comunale era stato distrutto dalle bombe e c’era la voglia di tornare un’importante meta turistica iniziando con l’incrementare le visite nella stagione invernale. Siamo nel momento della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, il momento in cui il popolo doveva ritrovare gli ideali e il senso di patria che si era smarrito: aveva bisogno di una canzone che esprimesse tutto questo.
In quegli anni esisteva solo la radio, era la protagonista, e le canzoni diffuse divennero il simbolo della nostra società. Un senso di italianità che fonda le radici nei canti napoletani, nelle romanze ed è legata a filo doppio al “bel canto” della tradizione lirica.
Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone
A riprova di come Sanremo nasca in un contesto di ripensamento generale delle politiche culturali della Rai, Jacopo Tomatis trova molti riferimenti in articoli di giornale e nelle rubriche radiofoniche dell’epoca in cui si parla molto spesso della volontà di valorizzare la musica leggera andando a recuperarne i suoi caratteri originari. Tutti indizi che suggeriscono come «il Festival nasca nel quadro di un progetto ben orchestrato da parte della Rai».
La nascita e il successo di una manifestazione come questa era un modo per la Rai di soddisfare la propria domanda di canzoni e rinforzare il controllo non solo sull’offerta, ma anche nei contenuti e nello stile.
La Rai era la maggior committente di musica leggera in Italia e per questo motivo il principale interlocutore dell’editoria musicale. Prima della Guerra l’Eiar (l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) non aveva un numero di adeguato di canzoni per la messa in onda e nel 1956 il problema era l’opposto: in Italia la produzione di canzoni era troppo abbondante, il successo di Sanremo aveva reso necessaria l’attivazione di concorsi per la selezione dei brani.
Il direttore del Casinò di Sanremo, Pier Bussetti, su domanda di Mario De Luigi nel 1953 sul successo delle prime edizioni commenterà alla stampa: «Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone».
Grazie alla crescente domanda del pubblico nasceranno nuovi festival e concorsi; la stampa popolare inizierà ad occuparsi dei nuovi divi della musica leggera e “Sorrisi e canzoni” (al tempo “Sorrisi e canzoni d’Italia”) nel 1952 si aggiudica l’esclusiva sulla pubblicazione dei testi delle canzoni di Sanremo e insieme ad articoli di costume, gossip di star e jet-set, diventerà una delle riviste di maggior successo. Scrive Tomatis:
Come spesso dicono “l’Italia è una Repubblica fondata su Sanremo” e il resto è storia.
Benvenuti nel futuro! Era impensabile una quindicina di anni fa: una startup innovativa, più che una promessa una speranza, oggi è diventata il segmento del music business che è riuscito a riportare in positivo i bilanci della discografia. È lo streaming!
La cosiddetta “musica liquida” secondo l’Ifpi nel 2018 ha smosso un giro d’affari da 8,9 miliardi di dollari, il 34% in più rispetto all’anno precedente. Impressionante per qualcosa che nel 2004 non esisteva. Leader indiscusso è Spotify, nel primo trimestre 2019 ha toccato quota 100 milioni di utenti a pagamento con una quota di mercato del 36%, seguita da Apple Music con 56 milioni di iscritti; a seguire Amazon Music, Youtube Music, Deezer e altri ne stanno nascendo.
Tutta la musica che vuoi ascoltare a portata di un click dal tuo telefono, sarà anche “smart” ma tecnicamente è pur sempre un telefono. Tuttavia non è la prima volta che nel corso della storia si è pensato di trasmettere della musica attraverso una linea telefonica, cento anni fa esisteva già un servizio di streaming musicale telefonico: il Telharmonium.
Il Telharmonium fu il primo strumento musicale elettronico della storia. Inventato da Thaddeus Cahill intorno al 1897 era una macchina gigantesca grande come un vagone ferroviario, pesava 200 tonnellate e può essere considerato l’antenato dell’organo elettromeccanico Hammond. Era composto da 145 dinamo accoppiate ad induttori per la produzione di correnti alternate capaci di variare la frequenza. Le frequenze erano controllate da alcune tastiere sensibili alla pressione delle dita, proprio come un pianoforte, capaci di combinare insieme le diverse frequenze e creare effetti sonori che imitavano gli strumenti dell’orchestra.
La seconda idea geniale di Cahill fu quella di creare un impianto di filodiffusione e pensò ad un sistema di trasmissione della musica attraverso la normale linea telefonica. Da qui la nascita del nome tele-harmonium, un mezzo di trasmissione del suono, una sorta di Spotify Vittoriano. Il Telharmonium sembra quasi una macchina uscita dall’universo Steampunk, il movimento artistico culturale che gioca con anacronismi e tecnologie, immaginando “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima” con città di automobili a vapore e computer meccanici con tastiere in ottone e cuoio.
Il Telharmonium fu installato e iniziò a funzionare nel 1906 a Broadway, New York: gli ascoltatori chiamavano un centralino che li metteva in contatto con una sorta di stazione radio telefonica, chiedevano all’operatore di potersi connettere e la musica usciva magicamente dalla cornetta del telefono; la cornetta poteva essere avvicinata ad un grande imbuto per amplificarne il volume (l’amplificatore elettrico non era ancora stato inventato).
Il sistema fu adottato da molti hotel, bar, ristoranti e attirò anche l’attenzione dello scrittore Mark Twain che si recò di persona a vedere da dove uscisse quella melodia:
Ogni volta che vedo o ascolto di una nuova meraviglia come questa devo rimandare subito la mia morte. Non posso lasciare questo mondo fin quando non ne avrò sentite ancora e ancora.
Mark Twain
Fu un’iniziativa che dimostrò già allora una particolare attenzione per la diffusione di massa della musica, anche se le opere trasmesse erano di compositori come Bach, Mozart, Chopin, Grieg e Rossini. Il progetto però non durò molto e il Telharmonium fu dismesso nel 1916 per motivi di natura tecnica (il sistema telefonico non reggeva il forte sovraccarico di informazioni creando problemi al servizio) e il gigantesco macchinario nel 1920 fu rimosso dall’appartamento della 39st & Broadway di New York. La fine del Telharmonium coincise con l’avvento di uno dei mezzi di comunicazione di massa più diffusi: il sistema radiofonico.
Cinture ben allacciate, ci lanciamo in un salto (nel vuoto) temporale un po’ azzardato: dal 1968 con “O-bla-di o-bla-da life goes on brahhh” dei Beatles al 2019 con “Alfa-Alfa-Alfabeto rappapappapappapà” di Young Signorino. È un paragone così blasfemo? Forse sì, ma c’è sempre un senso “anche se un senso non ce l’ha”, citando Vasco che nel senso del non senso cade in piedi.
La Musica non è sempre abbinata alle parole, pensiamo semplicemente a tutta la Classica sinfonica, ma la musica Leggera vede nella canzone la sua forma musicale più diffusa. Un’unione di musica e parole nel classico susseguirsi di strofa e ritornello, con eventuali aggiunte come incisi, assoli, bridge, intro e outro. Un connubio estremamente efficace sul piano comunicativo, che rende possibile la trasmissione di significati in maniera semplice e diretta.
Un momento cardine per l’evoluzione della canzone è avvenuto tra gli anni ’50 e ’60, quando non viene più vissuta solo come un evento musicale, ma comincia a diventare un fenomeno culturale di massa: in un concentrato di 3 minuti di parole e musica vengono racchiusi ideali, ansie ed emozioni di una generazione. Per la prima volta i giovani iniziarono ad affidare alle canzoni i loro messaggi. La svolta maggiore arrivò con il Rock’n’Roll. Ritmi scatenati, movenze provocanti, dissacranti, provocatorie e modalità espressive come urla, gemiti e sospiri. Il Rock riporta la musica alla sua parte più ancestrale e primitiva, reintroducendo l’elemento dionisiaco che la tradizione occidentale aveva represso e inibito.
Tutto questo in linea col quel periodo storico così ricco di cambiamenti e passioni. Sono canzoni dirette, senza mezze misure, esempio di quell’irrefrenabile voglia di gridare la propria libertà: un parallelo in musica di quell’epocale cambiamento generazione in atto. Partendo banalmente da Chuck Berry, Elvis, Beatles, Rolling Stones, ai Doors, Led Zeppelin, The Who con “My generation”… Un elenco lunghissimo che andrebbe a raccontare la storia del Rock.
Tra gli outsiders voglio ricordare “Je t’aime… moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, una apparente dolce ballata sussurrata, ma dal testo che poco lascia all’immaginazione e che provocò uno spropositato scandalo nell’estate del 1969.
Un altro passo nell’evoluzione della canzone: il confine tra “cantato” e “parlato” divenne sempre più labile e da oltreoceano arrivò anche in Italia. Un’Italia anni ’60 aperta ai momenti trasgressivi dell’avanspettacolo e alla satira da cabaret. Ecco che troviamo Fred Buscaglione con “Eri piccola così” e Paolo Conte con “Vieni via con me”: due canzoni che reggono tutte sull’interpretazione di due simpatiche canaglie dall’espressività unica. Intonazione e inflessione del suono uniche, come per Lucio Dalla che nelle sue improvvisazioni ritmico-melodiche ha creato uno stile indistinguibile che scandisce nelle sue canzoni i momenti di maggior coinvolgimento emotivo.
Restando nel giocoso non si può non citare “Supercalifragilistichespiralidoso” dell’iconica Mary Poppins, e per tornare al pop italiano “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano, una delle stramberie del Molleggiato (difficilissimo scioglilingua che giocava sull’assonanza con la lingua inglese), un “rap ante litteram” come affermerà poi Celentano nel 1994. Tra il parlato e il giocoso troviamo anche l’intramontabile Mina con, ad esempio, “Ma che bontà” (1977) e “Le mille bolle blu” dove si ha un trionfo dell’onomatopea con quel “bllll”, effetto vocale che richiama il rumore delle bolle di sapone.
Per arrivare ai lustrini e alle paillettes degli anni ‘80 con il testo nonsense di “Cicale” di Heater Parisi, sigla della trasmissione televisiva di Rai1 “Fantastico 2” (1981), alle provocazioni di Vasco Rossi con “Bollicine” (Coca cola chi vespa mangia le mele / Coca cola chi non vespa più e mangia le pere) e“Lamette” di Miss Rettore (“Dammi una lametta che mi taglio le vene”) fino alla voce dei giovani degli anni Zero con “Wale (Tanto Wale)” dei dARI.
Ecco che dal Rock’n’Roll arriviamo all’Hip Hop e al rapping, fenomeno socialmente e culturalmente noto per essere una musica che si basa quasi esclusivamente sul messaggio contenuto nei suoi testi, più parlati che cantati su basi strumentali. Testi che esaltano gli aspetti ritmici delle singole parole, con un linguaggio musicale essenziale, privo di fronzoli, diretto e ripetitivo. Quasi un estremismo di quella rivoluzione iniziata negli anni ’60, un vero e proprio movimento culturale urbano nato già negli anni ’70 sulle strade di sobborghi multiculturali americani, come il Bronx, dove i giovani hanno trovato ancora una volta nella musica un mezzo per esprimere la propria identità e creare un’identità globale in cui riconoscersi.
Oggi questo genere musicale ha conquistato tutto il mondo, generando un imponente fenomeno commerciale e sociale, rivoluzionando il mondo della musica, della danza, dell’abbigliamento e del design. Una sua evoluzione è il tanto discusso Trap (finalmente ci siamo arrivati!), il genere del momento, quello in cui si rispecchiano i giovani di oggi.
A che punto dell’evoluzione siamo? Siamo nei sobborghi di Atlanta negli anni ’90, nelle “trap house” le case dove si preparava e si spacciava droga e dove molti giovani sono finiti “in trappola”. Si comincia quindi a cantare di un mondo di droga e soldi, il beat rispetto al Rap è più spinto, fatto su basi elettroniche, sintetiche, con molto autotune sul cantato. Dal 2010 la Trap ha cominciato a perdere l’animo più sotterraneo e controculturale della scena Rap, approdando almainstream e ponendo fine a tutti i discorsi sul desiderio di riscatto dalla trappola.
Proprio nel 2010 le prime influenze sono arrivate anche in Italia, fino ad esplodere come vero fenomeno nel 2015 con il successo del trapper Sfera Ebbasta e poi la Dark Polo Gang, Ghali, Achille Lauro (per citarne alcuni) e arrivare alla fine del nostro salto nel vuoto con Young Signorino che nel 2018 è stata la pietra dello scandalo con la sua più che criticatissima “Mmh Ha Ha Ha” dal testo nonsense mentre il 2020 inizia con la polemica di Junior Cally a Sanremo.
Siamo come sempre davanti alla fotografia di una generazione. Una musica di origine afroamericana, nata nei sobborghi delle metropoli degli Stati Uniti che celebra stili di vita marginali: non è una storia già sentita?
Molti definiscono la Trap come “la colonna sonora perfetta per le stories di Instagram”, dura 24 ore e poi scompare. È la colonna sonora di una generazione dominata dai rapporti virtuali in un’epoca piatta. Sono giovani che parlano ai giovani utilizzando il linguaggio che usano abitualmente: grammatica da social network, chat di WhatsApp e serie tv.
Tutti ne parlano. È la nuova “cattiva musica” da insultare, un po’ come è stato anche per il Rock’n’Roll ai tempi di Elvis. Lo hanno già ricordato in tantissimi: di esempi negativi la storia della musica è piena e non ne sono esenti nemmeno gli intoccabili Beatles. La storia del gusto procede in un continuo ciclo di trasgressione delle convenzioni della stagione precedente, riassorbimento e normalizzazione.
A difesa del passato si può dire che la Trap è una musica prodotta volutamente male, cantata volutamente male, senza ricercatezza, senza un messaggio per cui lottare (penso, ad esempio, al Punk). Il problema non è la Trap, non ha inventato nulla.
“La Musica è un esercizio aritmetico della mente che conta senza sapere di contare” (Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi) scriveva Leibniz, rifacendosi alle teorie pitagoriche secondo cui il segreto dell’armonia risiede nel potere magico dei numeri.
Ascoltare una bella melodia e pensare che risponda a specifici rapporti matematici è qualcosa di molto astratto, soprattutto per chi non è un musicista. Studiando la teoria musicale si scopre come tutto segua delle regole precise. Nel Medioevo, ad esempio, la Musica (“ars musica”) veniva insegnata nel Quadrivio insieme alle discipline attribuite alla sfera matematica (aritmetica, geometria, astronomia).
La Musica può essere descritta in senso formale come una serie di eventi sonori disposti nel tempo: ogni nota ha una sua funzione perché inserita all’interno di un sistema di relazioni spiegato dalla scienza dell’armonia. Ad esempio, nel sistema musicale occidentale possiamo pensare alla scala di Do maggiore, costituita da 7 suoni diversi per numero di vibrazioni (la frequenza) ai quali per convenzione diamo i nomi di: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La Si.
Come gradini di una scala, questi 7 suoni sono distanti tra loro e la distanza tra un suono e l’altro viene chiamata “intervallo” che quindi rappresenta la differenza di altezza tra due note.
Tornando alla nostra scala di Do maggiore: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La Si e poi nuovamente Do (se vogliamo proseguire e salire sempre di più) il secondo Do è un suono diverso dal primo, è più acuto. Porta sempre il nome di Do perché ha una somiglianza speciale con il primo: ha un numero doppio di vibrazioni per secondo (stanno in rapporto di 2:1) e si dice per convenzione che è all’ottava superiore del primo (in quanto è l’ottavo suono dopo il Do iniziale). Tra Do e Re c’è un intervallo di seconda, tra Do e Mi di terza, tra Do e Fa di quarta e via dicendo.
La distanza tra due note quindi è definita da un ben determinato rapporto numerico: il rapporto delle frequenze di quelle due note. Il discorso è molto complicato da spiegare brevemente, ma spero questo accenno possa far intuire come i suoni delle scale musicali siano collegati tra loro da precisi rapporti matematici.
I rapporti tra le note creano armonia non solo all’udito, ma anche nella forma edesiste un modo per vedere queste misteriose frequenze e il rapporto magico che creano tra di loro. Guardate com’è il rapporto di ottava, la distanza tra i due Do di cui parlavamo prima.
Ricorda il numero otto e anche il simbolo dell’infinito. Questa scoperta si deve al matematico francese Jules Lissajous, che a metà del XIX secolo scoprì come proiettare una vibrazione sonora su uno schermo. L’esperimento consiste nel proiettare un raggio luminoso tra le forcelle di un diapason (uno strumento musicale di metallo a forma di U che vibrando produce suoni di un’altezza perfettamente determinata); con un gioco di specchi, il raggio riflette la vibrazione su uno schermo producendo un’onda sinusoidale.
Aggiungendo un altro diapason e sommando due diverse vibrazioni Lissajous scoprì che producevano forme bellissime, oggi conosciute come “figure di Lissajous”, possono essere considerate come l’espressione geometrica dell’armonia musicale.
Erano le prime immagini dell’armonia. Dopo tanta teoria Lissajous ha dimostrato come l’unione di due particolari note in “armonia” tra loro crea non solo suoni armonici, ma anche forme armoniche.
A questo link viene riproposto l’esperimento di Lissajous con i due diapason e il gioco di specchi, proprio come doveva averlo ideato lo scienziato francese.
Mentre grazie alla tecnologia oggi possiamo osservare queste particolari onde con immagini più chiare e dirette:
“Avvicinati dunque, glorioso Odisseo, grande vanto dei Danai, ferma la
nave, ascolta la nostra voce. Nessuno mai è passato di qui con la sua nave nera
senza ascoltare il nostro canto dolcissimo: ed è poi ritornato più lieto e più
saggio. Noi tutto sappiamo, quello che nella vostra terra troiana patirono
Argivi e Troiani per volere dei numi. Tutto sappiamo quello che avviene sulla
terra feconda”. (Odissea, XII, 184-191)
Queste sono le sole parole che l’Odissea ci tramanda relative al canto delle Sirene, altro non sappiamo su cosa effettivamente abbia ascoltato Ulisse. Tappate le orecchie dei suoi compagni con cera sciolta al sole, solo lui, stretto da grosse corde sull’albero maestro della nave, ha potuto sentire la soave voce di questi esseri marini. Ma cosa mai avranno potuto cantare queste mitologiche creature di così tanto dolcemente crudele oppure terribilmente soave da indurre in tentazione un uomo così forte nell’animo che già aveva superato ben più difficili prove?
Studiando il rapporto che il mondo greco ha con la Musica scopriamo come nel periodo arcaico dominasse una concezione della musica quale attività di tipo magico-incantatorio e la magia fosse all’epoca un estremo tentativo di controllare le forze naturali che si presentavo all’uomo. Come per molti popoli primitivi (messicani, indù, egizi e cinesi) la musica era lontana da meritare il titolo di “opera d’arte”; essa non rappresenta un fine: è invece un mezzo, una operazione magica, un atto religioso. Nella civiltà greca Orfeo è considerato un dio e tra le sue Muse vi era anche Calliope “dalla bella voce”. I primi musicisti hanno sicuramente cantato per gli dei, non per puro piacere personale, tanto che lo stesso Platone non conosce musica al di fuori della religione, voleva persino che il legislatore si impegnasse a conservare il carattere liturgico alla danza e la canto.
Canto legato al divino e alla magia dunque, difatti le Sirene sono esseri divini. Addentrandoci nel dettaglio della loro genealogia mitologica e iconografia si notano varie incongruenze, che già si palesano nell’etimologia del nome: si può far derivare dal semitico sir “canto magico” oppure da σείριος “incandescente”. Ninfe del mare, sono dette talvolta figlie di Forco, oppure di Acheloo e di Sterpe, in altri casi invece sono ritenute figlie di Tersicore, Melpomene o Calliope, per le loro virtù musicali che le avvicinano alle Muse; altre tradizioni infine le considerano figlie di Gea.
Le Sirene: esseri divini che con il loro canto seducevano (etimologicamente se-ducere “condurre a sé”) i passanti; un canto che al tempo presso i Greci era legato alla magia, all’incantesimo e all’incantare, su queste basi si può ben pensare che non fosse di poco conto il contenuto di tale musica. Ma cosa effettivamente Ulisse abbia sentito non c’è dato sapere, possiamo solamente riflettere su ciò che Omero riferisce: «noi tutto sappiamo» e poco prima «ed è poi ritornato più lieto e più saggio». Quanto meno misteriose queste parole ed è per questo comprensibile che tanto se ne sia scritto e congetturato, al punto da rendere ancora vivo questo mito nel mondo odierno.
Non è un azzardo arrivare al punto di ipotizzare che il tutto (πάντα) da loro conosciuto che avrebbe reso chi le ascoltava più saggio, sia da intendere proprio in senso lato come Tutto ciò che un uomo desidererebbe sapere (tanto da indurre in tentazione anche un eroe scaltro e saggio come Ulisse) ovvero come il Sapere più ampio che conosce tutti i misteri dell’Universo.
Universo e Musica sono legati tra loro sin dai tempi primitivi, in culture dove era presente l’idea stessa di “suono” come substrato dell’universo. Questi concetti bene sono stati esposti da Marius Schneider nel libro dal titolo La musica primitiva (Adelphi, 1992), dove ad esempio si legge che «tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. (…) La fonte dalla quale [un dio] emana il mondo è sempre una fonte acustica». Il suono viene inteso come creatore del mondo: «nato dal Vuoto, è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio», è quindi la prima forza creatrice che in molte mitologie viene personificata da cantori.
Per risolvere questo quesito si può ricorrere alle filosofe orientali che su questo fondano la loro religione: l’uomo può trovare le risposte solamente dentro di sé. In nessun modo il mistero dell’esistenza può essere svelato, lo si deve comprendere maturando la conoscenza del Sé. A tal proposito si può citare una frase di Buddha che sembra descrivere ottimamente la μήτις che nell’Odissea scalza il κλέος al cui raggiungimento ha invece dedicato la sua breve vita Achille: “Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia”. E sulla tenacia che caratterizza Ulisse, il quale mai ha desistito dal raggiungere la sua meta e a molti affanni ha resistito, si può trovare un parallelo in un insegnamento di Gandhi: “Chi non controlla i propri sensi è come chi naviga su un vascello senza timone e che quindi è destinato a infrangersi in mille pezzi non appena incontrerà il primo scoglio”.
Le Sirene tacciono, lasciano spazio all’introspezione, lasciano alla mente dell’uomo il compito di sciogliere i dubbi che lo attanagliano e trovare in sé la forza di proseguire il suo viaggio. Come scrive Giovanni Pascoli nella poesia “L’ultimo viaggio di Ulisse”, le Sirene sono scogli silenziosi, come dura è la roccia così è difficile scavare nel proprio animo. D’altronde chiaro era il motto Γνῶθι Σεαυτόν (conosci te stesso) scritto sulla pietra del tempio dell’Oracolo di Delfi che per intero recitava: “Uomo conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli dei”. Cosa se non questo potevano urlare nel loro silenzio le Sirene? Silenzio che alle volte assorda, silenzio che indaga, silenzio che può anche far paura.
In conclusione è così che vedo il mio Ulisse: un uomo qualsiasi, non un bellissimo eroe, ma, come lo descrive Polifemo, «un essere piccolo, debole, un uomo da nulla» che non ha compiuto un viaggio verso la salvezza dell’anima, un viaggio iniziatico oppure uno interiore, ma il “semplice” viaggio della vita, con tutto quello che questa affermazione sottintende. Ha chiuso il suo cerchio partendo da Itaca e giungendo a Itaca: fermo nella sua meta, senza mai cambiarla, alla fine l’ha raggiunta. Ha perso la sua identità, è diventato un “nessuno” qualsiasi, ha vissuto mille tentazioni tra le quali raggiungere l’immoralità, ma è riuscito a capire chi era: Ulisse, il re di Itaca. Non era un eroe di battaglia come Achille e non è morto nella gloriosa Guerra di Troia; non era un dio e non ha vissuto da immortale con la splendida Calipso o nella paradisiaca terra dei Feaci.
Lui era Ulisse e come Ulisse è ritornato, ha raggiunto la sua terra e i suoi affetti. Ha pianto, ha sofferto, ha lottato contro mostri, ha visto morire tutti i compagni, si è scagliato contro rocce in balia di mille tempeste, è rimasto nudo e solo, eppure non ha mai ceduto. E lui il canto delle Sirene lo ha ascoltato.
Vi è mai capitato di sentire qualcuno dire: “Domani sera vado al concerto dei Pink Floyd” (oppure dei Queen, dei Led Zeppelin…) Quando mi succede rimango sempre un attimo perplessa: c’è la reunion e non lo so? È risorto qualcuno? Poi realizzo: la Tribute Band! D’altronde perché scandalizzarsi? Anche le orchestre di musica Classica alla fine non sono altro che delle patinatissime cover band… o no?
Riassumendo l’annosa diatriba “musica originale vs cover band” si arriva ad un paradosso del genere. Ormai le cover/tribute band che omaggiano i grandi della musica Pop e Rock sono sempre di più, anzi quasi la totalità dei gruppi che si esibiscono nei piccoli locali e club; ultimamente anche nei grandi teatri e festival, rientrando in cartellone accanto alle grandi star internazionali.
Quando è cominciato tutto? Nel corso della storia della Musica non è sempre esistito il concetto di “repertorio”, ovvero i grandi capolavori e musicisti immortali da conoscere, studiare e trasmettere a tutte le successive generazioni. La nostra posizione di ascoltatori oggi è molto diversa rispetto a quella di chi è vissuto secoli fa. Può sembrare strano, ma in passato il pubblico ascoltava i compositori della generazione presente e i musicisti studiavano al massimo quella di una o due generazioni precedenti. La musica più antica non interessava, cessava di esistere e lasciava il posto a nuove sonorità, più moderne e vicine al gusto del pubblico contemporaneo.
La dimensione di musicisti e ascoltatori – almeno per quanto riguarda la Storia della Musica occidentale – è iniziata a cambiare solo nel Settecento, con l’affermarsi del concetto di “classicità” applicato alla Musica. Si inizia a pensare che un’opera abbia un valore al di là della sua funzione contingente e che possa permanere nel tempo come capolavoro artistico.
Anche l’affermarsi dell’editoria musicale e il diffondersi delle riduzioni per canto e pianoforte hanno in seguito contribuito ad orientare il pubblico verso una fruizione di tipo diverso, in cui il teatro era anche il luogo in cui assistere a nuove interpretazioni di opere già note. Storicamente gli studiosi hanno individuato uno dei momenti cardine di questo cambiamento nella prima esecuzione moderna della Passione Secondo Matteo di J.S. Bach, diretta da Felix Mendelssohn a Berlino nel 1829.
Dopo la sua morte (Lipsia, 1750) anche la musica di Bach era stata soppiantata dalle opere dei suoi successori, proprio per il modo che si aveva allora di concepire la musica. Suo figlio lo chiamava “vecchia parrucca” e come tutti gli preferiva autori più moderni: era già considerato sorpassato.
I circoli berlinesi in cui Mendelssohn era cresciuto hanno cominciato un inarrestabile percorso che mirava alla diffusione delle opere dei tempi passati. La Musica inizia così ad essere considerata in senso storico, con una sua evoluzione e con i suoi Maestri, così come accadeva già per le arti figurative, il teatro e la letteratura. Da fine Ottocento nei programmi di concerto, accanto alle musiche nuove, iniziano ad essere inserite anche le composizioni dei grandi del passatoche nel Novecento finiranno per soppiantare quasi totalmente le opere di autori contemporanei.
Oggi il concetto di “repertorio” è fondamentale e il musicista classico che si dedica unicamente alle proprie composizioni o ad un repertorio contemporaneo è considerato uno specialista. La musica Classica contemporanea circola più in ambienti “di nicchia” che non in quelli mainstream e il repertorio che il pubblico ascolta in assoluta maggioranza e interesse è innegabilmente legato ai secoli passati.
Non sembra la descrizione di quello che sta succedendo ora? La storia è fatta di corsi e ricorsi, forse è il caso di chiederci se non siamo arrivati ad un punto di svolta così radicale anche per la musica Pop e Rock. A pensarci bene, tranne meteore passeggere create ad hoc per un pubblico di giovanissimi, da una decina di anni ad oggi sono pochi sono gli artisti ancora in auge, mentre i Big sono sempre più intramontabili (ad esempio: Achille Lauro farà veramente la carriera di Vasco, per quanto ne sentiremo parlare?). Nelle piccole realtà cittadine la situazione è ancora più lampante: i concerti di giovani musicisti che eseguono musica propria sono sempre meno, il pubblico interessato è pochissimo e sempre più “di nicchia”. Mentre sono seguitissime le tribute e cover band che con i loro concerti dedicati ai “grandi classici” della musica Rock e Pop riempiono anche teatri e palazzetti.
Beatles, Queen e Pink Floyd saranno i nuovi Mozart, Bach e Beethoven?
Merito dei musicisti del passato o demerito dei musicisti del presente? Colpa del music business? Colpa della musica liquida, di Spotify e dei talent show? “It’s evoloution baby!”
Ormai da un significativo periodo di tempo non si sente più parlare di “tot” copie vendute di un disco, ma il vanto principale degli artisti è screenshottare il traguardo dei primi posti sulle varie piattaforme d’ascolto streaming (es. Spotify)o di vendita (es. Itunes). Oppure postare un bel selfie accanto al quadro con il disco d’oro, di platino, doppio platino e via dicendo. Per vincere il Disco d’Oro, o ancor meglio di Platino, sicuramente saranno tantissime le copie vendute, la conferma di un gran successo di vendite. O almeno così viene percepito dal pubblico. Lo sapete quante copie vendute servono per ottenere un disco d’oro in Italia? 25.000.
Sconfortante, soprattutto se pensiamo che in origine questo premio è nato nel 1942in America per riconoscere il successo senza precedenti del 78 giri di Glenn Miller “I Know Why/Chattanooga Choo Choo” che in 90 giorni vendette 1 milione di copie. Il premio si diffuse poi in tutto il mondo diventando l’attestato ufficiale del successo di un disco, insieme al Disco di Platino per i 10 milioni di copie vendute e il Disco d’Argento per 500.000.
In America è tutto più grande e non si possono paragonare i due mercati? Guardiamo alla nostra Italia: il primo Disco d’Oro se lo aggiudicò Natalino Otto con “Non dimenticar (che t’ho voluto bene)” nel 1952; nel 1957 Marino Marini vinse il premio con “Guaglione”, che vendette un milione di copie solo in Francia; Bobby Solo con “Una lacrima sul viso” ne vinse due (per 2 milioni di dischi venduti). Mentre il primo 33 giri ad ottenere il disco d’oro in Italia fu Franco Battiato con “La voce del padrone” nel 1981. (E solo tra parentesi per onore di cronaca “Nel blu dipinto di blu” (1958): ha venduto 22 milioni di dischi e si è aggiudicato il doppio platino, ma è un successo planetario in questo caso fuori contesto.)
Quindi, brevemente: un tempo 1 milione di copie, oggi 25.000.
Sconfortante.
Le soglie di vendita sono state ribassate negli anni, complice il cambiamento di mercati e anche il bisogno di adeguarsi alle vendite online e ascolti in streaming. In Italia gli ultimi grandi adeguamenti sono avvenuti da gennaio 2018 con l’inserimento nel conteggio anche degli ascolti in streaming. Come funziona? Dal 2010 FIMI, in collaborazione con GfKche rileva le vendite dei prodotti fisici e delle singole tracce online, ufficializza le certificazioni di vendita di ogni singola registrazione musicale pubblicata e venduta in Italia.
Oggi per lo streaming sono presi in considerazione solo gli ascolti derivati da servizi premium (effettuati da abbonati paganti), gli ascolti da un profilo free (effettuati da utenti non paganti) non vengono conteggiati.
Ad esempio, per il calcolo delle vendite di un singolo in digitale si è deciso che 130 streaming equivalgono ad 1 download digitale per minimo di 30 secondi di ascolto (quindi 130 ascolti di 30 secondi di un brano fanno 1 vendita). Per gli album il conteggio è più complesso, qui le note metodologiche di FIMI dal 2018.
Queste le soglie di certificazione attualmente in uso per la certificazione Album, Compilation e Singoli Online del FIMI che potete trovare nel sito ufficiale cliccando qui.
ORO oltre le 25.000
PLATINO oltre le 50.000
DOPPIO PLATINO oltre le 100.000
TRIPLO PLATINO oltre le 150.000
QUADRUPLO PLATINO oltre le
200.000
5 PLATINO oltre le 250.000
DIAMANTE oltre le 500.000
Ogni Paese ha le sue regole(negli USA il Disco d’Oro oggi si raggiunge a quota 500.000 copie vendute) e la quantità minima di copie vendute dipende da diversi fattori come il territorio, abitanti e altri parametri. Inoltre, per alcuni si riferisce alle copie distribuite e vendute ai negozi (quindi non necessariamente acquistate dall’utente finale) altri invece considerano le copie effettivamente acquistate dai singoli utenti.
Non voglio entrare nella polemica di come un ascolto di 30 secondi in streaming possa essere paragonato ad un vero interesse, neanche a quanto e come possano essere “taroccati” questi dati. Penso a quando uscì il primo disco dei Beatles: il manager Brian Epstein ne fece comprare copie in vari negozi, sollecitandoli a presumere un interesse del pubblico che ancora non c’era. Scrive Philip Norman nella biografia di John Lennon che Epstein ordinò 10 mila copie di “Love Me Do”, ossia dieci volte più del quantitativo che avrebbe mai potuto vendere nel proprio negozio, pur di garantire l’ingresso del brano nella classifica dei 20 dischi più venduti. Gli altri negozi riordinarono, il resto lo sappiamo.
Forse un tempo era più facile imbrogliare le classifiche. Però è recentissimo lo scandalo seguito alla pubblicazione dell’ultimo album di Fedez “Paranoia Airlines” (25 gennaio 2019). In tantissimi utenti hanno fatto notare su Twitter delle strane attività sui loro profili Spotify: hanno segnalato di essersi ritrovati nella propria cronologia decine di ascolti dei brani di Fedez, senza che questi brani fossero stati effettivamente mai ascoltati oppure: “Ogni canzone che seleziono si interrompe per far partire l’album di Fedez”. E ancora: “È Spotify che non funziona o capita solo a me che ti obblighi ad ascoltare Fedez?”. “A me questa mattina qualsiasi canzone cliccassi dopo 3 sec in automatico mi partiva il disco di Fedez!”. Fedez e Spotify hanno rassicurato la regolarità del servizio smentendo ogni accusa. Certo che è stato qualcosa di quantomeno bizzarro!
Penso che tutto ciò sia un esempio di come poco ci si informi su quanto e cosa c’è dietro alla Musica, di come le belle capture markettare e un disco placcato d’oro in una bella cornice possano bastare a far credere di aver raggiunto alte vette di successo, di quanto poco venda la musica oggi.
Ascolti davvero la musica? O la maggior parte delle volte la senti?
Tra sentire ed ascoltare c’è unagrande differenza, non sono due sinonimi. “Sentire” è semplicemente l’atto di percepire un suono attraverso il nostro sistema uditivo; “ascoltare” invece prevede l’attenzione, pensare e ragionare su quanto si sente. Da qui nascono due macro-categorie in cui si può suddividere il modo in cui ci approcciamo alla musica: con un ascolto attivo o passivo.
L’ascolto passivo è l’ascolto distratto della musica oggi percepita come colonna sonora della vita: siamo abituati ad avere musica in sottofondo praticamente ovunque, in televisione, nei centri commerciali, alla radio, in auto, molti la “ascoltano” anche durante il lavoro o lo studio.
L’ascolto attivo richiede attenzione. Ci può essere chi ascolta tentando di capirne la tecnica, chi si interessa all’aspetto storico come la contestualizzazione del brano e del compositore, o chi cerca di comprenderne il messaggio e il valore in quanto mezzo di comunicazione.
Tra questi due mondi lontani esistono diverse sfumature, non è mai tutto bianco o nero! Una delle più note distinzioni delle diverse tipologie dei comportamenti musicali è quella stilata dal musicologo, sociologo, filosofo Theodor W. Adorno, prima delle sue dodici lezioni di Sociologia della Musica, pubblicate nel testo “Introduzione alla sociologia della musica” del 1962. Sono passati diversi anni, ma con i dovuti parallelismi è ancora molto valida.
Sei tipologie ideali di ascoltatori che non pretendono di essere assolute, ma è uno schema utile all’indagine sociologica relativa al consumo della musica nella nostra società:
1. L’ESPERTO Solitamente l’ascoltatore esperto è un musicista professionista, dotato di una preparazione tecnica che gli permette di comprendere le strutture musicali del brano. Non gli sfugge nulla e si rende conto in ogni istante di cosa sta ascoltando. Non è detto però che abbia la qualità e la capacità di intendere la musica come “linguaggio” nelle sue risonanze interiori e culturali.
2. IL BUON ASCOLTATORE È in grado di percepire istintivamente la logica immanente della musica ed è in grado di coglierne il prestigio. Non è del tutto consapevole delle implicazioni tecniche e strutturali, le avverte in modo inconscio. «Capisce la musica all’incirca come uno capisce la propria lingua, anche se sa poco o niente della grammatica e della sintassi».
3. IL CONSUMATORE DI CULTURA Colleziona dischi, è informato su ogni particolare biografico e nozionistico, ascolta molto e in alcuni casi è insaziabile, va sempre ai concerti dando giudizi positivi o negati sulle esecuzioni. Rispetta la musica in quanto bene culturale, spesso come qualcosa che bisogna conoscere per il proprio prestigio sociale: tale atteggiamento va dalla sensazione di un serio impegno fino al volgare snobismo.
È l’uomo dell’apprezzamento, il piacere di ciò che la musica gli dà supera il piacere della musica stessa, intesa come opera d’arte che esige tutto il suo impegno. «Gli incutono rispetto la tecnica, il mezzo fine a se stesso, e in tal senso egli non è affatto lontano dall’ascolto massificato oggi diffuso. Però si atteggia a nemico della massa, a uomo d’élite». Conformista e convenzionalista è quasi sempre ostile alla nuova musica e infuria contro “questa robaccia”.
4. L’ASCOLTATORE EMOTIVO Non vuole sapere nulla sulla musica e preferisce abbandonarsi al flusso sonoro. La musica ha una funzione liberatrice e diviene un mezzo in cui riversare le proprie emozioni o trarre emozioni di cui sente la mancanza. Ha reazioni emotive forti durante l’ascolto, ad esempio piange facilmente, ma si rifiuta di approfondire la conoscenza di ciò che sta ascoltando.
5. L’ASCOLTATORE RISENTITO Si suddivide in due categorie: colui che ascolta solo musica preromantica disprezzando tutto il resto e il fan del Jazz. Sono esperti, ottusamente settari, vigilano sull’assoluta fedeltà esecutiva attenti che non ci si discosti dal minimo particolare alla ricerca di un ideale fine a se stesso. Il primo ama Bach e Vivaldi che ritiene immuni dalla mercificazione; il secondo polemizza contro il Jazz commerciale e la musica Leggera e non prende neppure in considerazione la musica classica o romantica. Entrambi rimangono vincolati all’interno di un ambito molto ristrettoe ignorano interi settori musicali che invece sarebbe importante conoscere.
6. CHI ASCOLTA MUSICA PER PASSATEMPO È il gruppo più numeroso e dal punto di vista Sociologico quello di maggior importanza. Secondo Adorno: «l’ascoltatore per passatempo è l’oggetto dell’industria culturale, vuoi che questa gli si adegui, vuoi che sia lei stessa a crearlo o a metterlo in luce». La musica per lui non è nesso significante, ogni critica o approfondimento gli è estraneo, è solo fonte di stimoli come per l’ascoltatore emotivo, ma il tutto è appiattito dal bisogno di musica intesa come comfort che aiuti a distrarsi. Ad esempio, si lascia sommergere dalla musica trasmessa dai mass-media come radio, cinema e televisione, senza ascoltare sul serio. Questo tipo di ascolto è paragonato all’atto di fumare: viene definito più dal disagio che si prova quando si spegne che dal godimento che si prova finché è accesa.
Oggi spegne la prima candelina la rubrica #ilDiscoDelMercoledì che tengo da 1 anno sul canale Instagram. Ogni settimana il mercoledì pomeriggio ascolto un album, raccontando qualche curiosità e cercando di scoprire il perché della sua importanza all’interno dell’immenso universo musicale.
Il criterio di scelta è semplice: “quello che oggi ho voglia di ascoltare” e lo condivido con voi. La rubrica pian piano è cresciuta e ne approfitto per ringraziare chi mi segue ogni settimana da mesi e mesi! Per chi fosse curioso, tutti i 52 dischi passati sono salvati nelle storie in evidenza del profilo Instagram e ve li riporto in lista qui sotto.
Da oggi inizia un nuovo anno con il disco numero 53. Vi aspetto!
Red Hot Chili Peppers “Blood Sugar Sex Magik” (1991)
Pearl Jem “Ten” (1992)
Judas Priest “Sad Wings of Destiny” (1976)
The Smashing Pumpkins “Mellon Collie and the Infinite Sadness” (1995)
Offspring “Smash” (1994)
U2 “The Unforgettable Fire” (1984)
ZZ Top “Eliminator” (1983)
AC/DC “Back in Black” (1980)
Alice Cooper “Hey Stoopid” (1991)
Bluvertigo “Metallo non metallo” (1997)
NOFX “So long and thanks for all the shoes” (1997)
Uriah Heep “Salisbury” (1971)
Prince “Sign o’ the Times” (1987)
Franco Battiato “La voce del padrone” (1981)
Sex Pistols “Never Mind the Bollocks” (1977)
Guns n’ Roses “Use Your Illusion II” (1991)
Metallica “Metallica” (1991)
Area “Crac!” (1975)
Joe Satriani “Surfing with the Alien” (1987)
Motörhead “Ace of Spades” (1980)
Nirvana “Unplugged in New York” (1994)
Led Zeppelin “Houses of the Holy” (1973)
The Jimi Hendrix Experience “Electric Ladyland” (1968)
Jaco Pastorius “Jaco Pastorius” (1976)
Bon Jovi “These Days” (1995)
Ramones “Rocket to Russia” (1997)
Gamma Ray “Somewhere out in Space” (1997)
Anthrax “Among the living” (1986)
Van Halen “Van Halen” (1978)
Black Sabbath “Black Sabbath” (1970)
Angra “Holy Land” (1996)
Alice in Chains “Facelift” (1990)
Ska-P “¡¡Que corra la voz!!” (2002)
Punkreas “Paranoia e potere” (1995)
Michael Jackson “Thriller” (1982)
Madonna “Ray of Light” (1998)
Blur “The Great Escape” (1995)
Oasis “(What’s the story) Morning Glory?” (1995)
Britney Spears “…Baby one more time” (1998)
Festivalbar compilation (1993)
Extreme “Extreme II – Pornograffitti” (1990)
Judas Priest “Painkiller” (1990)
Helloween “Keeper of the Seven Keys – Part II” (1988)
Skid Row “Slave to the Grind” (1991)
Rage Against the Machine “Rage Against the Machine” (1992)
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