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Twist and Shout: produzioni sbagliate e voci stremate non fermano una hit

“Yeah! Shake it up baby now, twist and shout” (sì, agitati piccola, balla il twist e urla) era l’inizio perfetto delle notti infuocate dalla “Beatles-mania”, di folle di fan urlanti e la voce John Lennon che provava a sovrastarle. I Beatles la terranno fissa in scaletta fino alla fine del loro tour americano dell’agosto 1965.

“Twist and Shout” è uno dei successi pubblicati nel marzo 1963 in “Please Please Me” il primo album dei Beatles, il debutto sul mercato di un gruppo che ha cambiato per sempre le sorti della storia della Rock. All’interno del disco c’erano 14 canzoni: 8 originali e 6 cover tra cui “Twist and Shout”.

La storia di questo brano inizia qualche anno prima, nel 1961 quando un giovane Phil Spector (che diventerà uno dei produttori più influenti e rivoluzionari della storia della musica contemporanea) volle lanciare un nuovo gruppo vocale, i Top Notes. Spector scelse per loro il brano “Twist and Shout” composto da Bert Berns (con lo pseudonimo di Bert Russell) e Phil Medley che l’avevano appena presentata alla Atlantic Records.

Top Notes – “Twist and Shout” (1961)

La canzone fu pubblicata nel settembre 1961 ma non ottenne alcun successo: fu un passo falso del produttore Phil Spector. Jerry Wexler, co-fondatore della Atlantic Records, racconta come fosse stata sbagliata la scelta dell’arrangiamento, l’atmosfera e il tempo. Si racconta che a fine registrazione Bert Berns abbia detto a Wexler: “Complimenti amico, l’avete rovinata”.

Per fortuna la storia di “Twist and shout” non si è fermata qui. Nel 1962 Bert Berns la propone agli Isley Brothers, un gruppo americano di R&B e Soul che aveva da poco raggiunto il successo con il singolo “Shout!”. Questa volta Berns di occupò personalmente della produzione del brano che fu pubblicato nel giugno del 1962 e ottenne un buon successo arrivando al diciassettesimo posto delle classifiche americane.

Isley Brothers – “Twist and Shout” (1962)

Il successo degli Isley Brothers verrà presto spazzato via dalla dirompente discesa sul mercato dei Fab Four. Erano le 10 del mattino di lunedì 11 febbraio 1963 quando i Beatles entrano in sala di incisione per registrare il loro primo disco: 10 pezzi in un giorno solo.

Ricorda il produttore George Martin: «Sapevo che “Twist and Shout” gli avrebbe ucciso la gola e così dissi: “Registreremo questo pezzo solo alla fine della giornata, sarà l’ultimo”. Se l’avessimo registrato prima, John sarebbe rimasto sicuramente senza voce. Così facemmo e “Twist and Shout” fu l’ultima cosa che incidemmo quella notte. Volevo due take. Dopo la prima John rimase completamente afono, io avrei voluto qualcosa di meglio, ma anche così era abbastanza buona per il disco».

dal libro ” The Beatles. Yeh! Yeh! Yeh!: Testi commentati. 1962-1966″ di Massimo Padalino

L’ingegnere del suono, Norman Smith, racconta che dopo 12 ore in sala di registrazione le voci dei Beatles erano completamente andate e John succhiava avidamente le sue mentine per la gola facendo qualche gargarismo con il latte per riuscire a portare a termine le registrazioni. Anni dopo John Lennon dirà:

Non riuscivo più a cantare quella maledetta roba, urlavo e basta. Avrei potuto cantarla meglio di così, ma ora non mi importa più: senti un ragazzo affannato che cerca di fare del suo meglio!.

The Beatles – “Twist and Shout” (1963)

La versione dei Beatles è abbastanza fedele a quella degli degli Isley Brothers, compreso l’intro che ricorda molto “La Bamba” di Ritchie Valens, anche se trasformarono la sonorità da R&B a Rock. “Twist and Shout” uscirà il 22 marzo 1963 nell’album “Please Please Me“, successivamente negli Stati Uniti come singolo 2 marzo 1964 e raggiungerà il secondo posto in classifica il 4 aprile 1964 in una settimana in cui tutte le prime cinque posizioni erano occupate dai Beatles.

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Jimi Hendrix: tutto iniziò con la cover di “Hey Joe”

“Hey Joe” è la canzone da cui è iniziato tutto: ha permesso a Jimi Hendrix di diventare “Jimi Hendrix” e passare alla storia come uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi. Jimi Hendrix è un nome leggendario che tutti conosciamo anche senza magari sapere bene perché sia stato uno dei maggiori innovatori nel modo di suonare la chitarra elettrica.

Tutto iniziò a metà anni ’60 in America, Hendrix a quel tempo si faceva chiamare Jimmy James e suonava la chitarra nei “Jimmy James and the Blue Flames”. Una sera si esibirono al locale “Cafe Wha?” nel Greenwich Village di New York e tra i pezzi in scaletta era stata inserita anche una cover: “Hey Joe”. Ad ascoltarli c’era Chas Chandler, al tempo bassista degli Animals, che rimase letteralmente folgorato dalla bravura e dal talento di quel giovane chitarrista mancino. Chandler la sera stessa chiese ad Hendrix di diventare il suo manager e lo portò a Londra; Noel Redding e Mitch Mitchell entrarono nella band e diedero vita alla “Jimi Hendrix Experience”.

Il singolo scelto per il debutto fu proprio “Hey Joe” (inizialmente rifiutato dal direttore artistico della Decco che non colse il potenziale del brano) pubblicato nel dicembre 1966 dalla Polydor Records. A gennaio 1967 il 45 giri “Hey Joe – Stone Free” era tra i dischi più venduti della classifica britannica e fece da apripista al primo album di Jimi Hendrix “Are You Experienced” considerato una delle pietre miliari del Rock.

La lungimiranza di Chas Chandler diede vita all’inarrestabile ascesa di Jimi Hendrix nell’olimpo del Rock, grazie alla leggendaria versione di quella “Hey Joe” suonata al Greenwich Village sostituendo la chitarra acustica dell’originale con la chitarra elettrica.

Jimi Hendrix – “Hey Joe” (live – Monterey Pop Festival, 1967)


“Hey Joe” di Jimi Hendrix è la cover di un brano blues inizialmente etichettato come “traditional” cioè musica della tradizione non soggetta al diritto d’autore. Venne inizialmente attribuita a Dino Valenti (cantautore statunitense meglio conosciuto come Chet Powers) poi rivendicata e accreditata nel 1962 a Billy Roberts, musicista americano che agli inizi degli anni 1960 si recò a New York stabilendosi nel Greenwich Village dove suonava per le strade e nei caffè.

Billy Roberts a sua volta prese spunto da una ballata popolare di inizio Novecento intitolata “Little Sadie” che racconta di un uomo in fuga dopo aver ucciso la propria donna, esattamente come in “Hey Joe”; inoltre gli avvenimenti narrati si svolgono nella Carolina del Sud da cui era originario Roberts. Un’altra fonte di ispirazione è un pezzo country di Carl Smith del 1953, intitolato proprio “Hey Joe”, in cui invece questo Joe era un amico del cantante al quale voleva rubare la moglie. Ultimo probabile spunto di Roberts è “Baby, Please Don’t Go to Town” (1955) della sua fidanzata dell’epoca Niela Miller che presenta una progressione di accordi quasi identica.

Billy Roberts – “Hey Joe” (1962)


La prima esecuzione dal vivo di Jimi Hendrix di “Hey Joe” fu al Monterey Pop Festival nel 1967 ed è stata anche la prima volta che venne presentata live ad un grande pubblico. Sarà anche la canzone di chiusura dello storico festival di Woodstock. Leggenda nella leggenda, si dice che “Hey Joe” sia il brano di cui sono state pubblicate più cover al mondo. Dopo Hendrix lo hanno rifatto un po’ tutti: dai Deep Purple agli Offspring, Björk, Cher… e anche Franco Battiato!

Non poteva rimanerne indifferente nemmeno la scena Beat italiana degli anni ’60 che così tanto si ispirava ai successi inglesi e americani. A farne una cover nel 1967 fu Giancarlo Martelli, in arte Martò, uno dei pionieri della scena beat di Bologna che affidò la traduzione del testo a Francesco Guccini, uno dei padri della canzone d’autore italiana impegnata.

Martò (testo di Francesco Guccini) – “Hey Joe” (1967)
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Surfin’ U.S.A.: Beach Boys vs. Chuck Berry

Siamo nella California anni ’60, gli anni in cui nacque un sottogenere del Rock ispirato alla moda che spopolava tra i ragazzi di allora, il surf. La Surf Music a differenza del Rock ‘n’ Roll, non aveva finalità politiche o di protesta sociale, era una musica divertente per gli adolescenti spensierati, sportivi, che amavano il sole e le spiagge della California.

Il 1963 è l’anno del grande successo mondiale dei Beach Boys che con la loro “Surfin’ U.S.A.” balzarono in vetta alle classifiche risultando alla fine dell’anno il singolo più venduto negli Stati Uniti.

Beach Boys – “Surfin’ U.S.A.” (1963)


Il testo fu scritto dal cantante Brian Wilson, parla ovviamente di estate, spiagge e cita i luoghi più belli dove fare surf, suggeriti dal fratello della sua ragazza; pare infatti che i Beach Boys in realtà non fossero dei surfisti, tranne il batterista Dennis Wilson. Il risultato è un vero inno alle coste del Pacifico: Del Mar, Ventura County, Santa Cruz, posti fantastici che ogni surfista ancora oggi vorrebbe visitare, e ancora Waimea Bay (Hawaii) e Narabeen (Australia).

Stavo canticchiando “Sweet Little Sixsteen” e mi piaceva un sacco. Così ho pensato di provare a mettere un testo Surf su quella melodia. L’idea era più o meno “Loro fanno questo in questa città e quest’altro in un’altra” come un twist di Chubby Checker, “Twistin U.S.A.”. Così ho pensato di chiamarla “Surfin’ U.S.A.”. Al tempo stavo uscendo con una ragazza che si chiamava Judy Bowles e suo fratello, Jimmy, era un surfista che conosceva a menadito tutti i posti dove si praticava il surf. Così gli ho detto: “Voglio fare una canzone citando tutti i posti dove fare surf” e lui mi fece una lista!

Brian Wilson (tratto dal libro “Becoming the Beach Boys, 1961-1963” di James B. Murphy)

La scanzonata e divertente “Surfin’ U.S.A.” è stata al centro di un grosso scandalo: Brian Wilson ha davvero preso molta “ispirazione” dalla canzone “Sweet Little Sixsteen” (1958) di Chuck Berry, il padre del Rock ‘n’ Roll (vi dico solo: “Johnny B. Goode” del 1959), che sfociò in una clamorosa disputa legale.

Brian Wilson dei Beach Boys cercò di difendersi dicendo che il suo voleva essere un tributo a Chuck Berry e non un plagio, peccando però di superficialità non chiedendogli il permesso di rielaborare la sua canzone. Il manager dei Beach Boys e il padre di Brian Wilson accettarono di cedere i diritti di distribuzione ad Arc Music, cioè a Chuck Berry. Il nome del chitarrista poi apparirà nella lista degli autori a partire dal 1966.

L’incidente di “Surfin U.S.A.” è ricordato come il primo grande caso di plagio della storia del Rock, ora giudicate voi:

Chuck Berry – “Sweet Little Sixsteen” (1958)
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Alta Marea: la cover di Venditti e il debutto di Angelina Jolie

Era il 1991 quando uscì l’album “Benvenuti in Paradiso” di Antonello Venditti, il suo più grande successo commerciale, ad oggi ancora il più venduto dell’intera discografia del cantautore romano. Il singolo di lancio e brano traino del successo del disco era la famosissima “Alta marea”.

Non c’è bisogno di ulteriori presentazioni, Venditti e “Alta marea” sono dei pilastri della canzone italiana. Forse però non è a tutti noto che “Alta marea” in realtà sia una cover. La voce di Antonello Venditti in “Autostrada deserta, alla confine del mare…” è così iconica che sembra assurdo pensare che la versione originale di questa canzone si intitola “Don’t dream it’s over” ed è un pezzo della band australiana Crowded House datato 1986.

Crowded House – “Don’t dream it’s over” (1986)


I Crowded House sono semi sconosciuti nel mondo, ma famosissimi in Australia. Hanno raggiunto la fama mondiale con il terzo singolo del loro primo omonimo album pubblicato nel 1986, la ballata pop “Don’t dream it’s over” scritta dal cantante Neil Finn. Resterà il loro unico grande successo internazionale e vincerà gli MTV Video Awards del 1987 nella categoria “Best new artist of the year”.

La versione di Antonello Venditti “Alta marea” mantiene la musica di Neil Finn e ne riscrive il testo. Venditti racconta un forte legame d’amore, il senso di dipendenza o appartenenza che si può provare e la forte paura di perdere la persona amata. Ennesimo successo di una carriera già consolidata, tra i capolavori della musica italiana, “Alta marea” spopola in radio e televisione anche grazie al videoclip girato da Stefano Salvati, regista di video musicali, spot, programmi tv con i pià grandi protagonisti della musica italiane e internazionale.

Girato a Los Angeles, il videoclip di “Alta marea” ha fatto storia: fu il debutto di una sconosciuta e sedicenne Angelina Jolie, scelta ad un casting tra oltre 200 ragazze, che in seguito diventerà una delle attrici più famose e ammirate al mondo.

Vista dal vivo era come tante altre, anzi era anche un po’ bassina (non arrivava al metro e 70), ma davanti alla cinepresa era favolosa! La scelsi per il ruolo da protagonista… si chiamava Angelina Jolie ed “Alta marea” era il suo primo lavoro.

Stefano Salvati
Antonello Venditti – “Alta marea” (1991)


Ultima curiosità: tra i musicisti che hanno collaborato al progetto del disco “Benvenuti in paradiso” figura anche l’attore Carlo Verdone nelle vesti di batterista e percussionista, e anche il maestro Demo Morselli alla tromba ed al flicorno.

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Piece of My Heart: Erma Franklin e la cover di Janis Joplin

Take it!
Take another little piece of my heart now, baby
Break it!
Break another little bit of my heart now, darling

Per chi ha ascoltato questa canzone almeno una volta, è impossibile non leggere questi versi senza pensare alla voce di una delle rockstar più famose e amate di tutti i tempi. “Piece of my heart” è uno dei brani più conosciuti della storia del Rock e lei è la leggendaria Janis Joplin.

Nata in una piccola città del Texas è diventata la più grande cantante blues del XX secolo, almeno tra le cantanti bianche. Anticonformista, ribelle, una donna apparentemente forte e determinata, ma in realtà molto sola, ha vissuto un’esistenza tormentata tra alcool e droghe, finita a soli 27 anni nell’ottobre del 1970.

La svolta arrivò quando insieme al suo gruppo i Big Brother and the Holding Company si esibì in una performance indimenticabile al Monterey Pop Festival nel giugno del 1967 e con il successo mondiale dell’album “Cheap Thrills” uscito nel 1968 e volato al primo posto nelle classifiche Billboard restandoci per otto settimane con più di un milione di copie vendute. “Cheap Thrills” conteneva tre cover: “Summertime” di George Gershwin, “Balld and Chain” di Big Mama Thornton e il singolo “Piece of My Heart”.

La storia di “Piece of My Heart” inizia prima di Janis Joplin e si intreccia con la storia di un’altra cantante che ha passato la vita all’ombra di sua sorella Aretha: Erma Franklin. “Piece of My Heart” è stata scritta da Jordan “Jerry” Ragovoy e Bert Berns e pubblicata per la prima volta nell’agosto del 1967. Anche se Bert Berns avrebbe voluto che a registrarla fosse Van Morrison, artista che all’epoca stava producendo, ma rifiutò l’offerta per concentrarsi sulle sue canzoni che stava incidendo.

Erma Franklin – “Piece of My Heart” (1967)


La voce black e calda di Erma ne diede una bellissima interpretazione Soul, il brano arrivò nelle classifiche R&B, ma non ci restò molto. Fu poi eclissato dall’interpretazione che ne fece Janis Joplin ed Erma Franklin ebbe il suo meritato successo solo nel 1992 quando la sua versione di “Piece of My Heart” fu scelto come colonna sonora di una fortunata pubblicità dei jeans Levi’s che potete vedere cliccando qui.

In un’intervista Erma Franklin dichiarò che la prima volta che ascoltò la versione di Janis Joplin non la riconobbe subito, era molto diversa sia come arrangiamento che come interpretazione. Non era più un caldo dolore d’amore, ma un grido di passione e rabbia scagliato al cielo da un urlo quasi primordiale. Nella versione di Janis Joplin “Piece of My Heart” diventa una canzone in cui esplode la sua furia, la sua energia, un graffio continuo dall’inizio alla fine che traduce in musica la sua sofferenza.

“Piece of My Heart” è l’anima di Janis Joplin messa a nudo in 4 minuti di canzone. È uno dei brani centrali della fine degli anni ’60 e dell’epoca Hippy che poi Janis canterà da solista in una memorabile interpretazione a Woodstock nel 1969. Un brano che continua a brillare ancora oggi.

Janis Joplin – “Piece of My Heart” (1968)
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Il giorno in cui la musica morì

“Bye, bye Miss American Pie, drove my Chevy to the levee but the levee was dry…” se la canticchiamo molto probabilmente è grazie alla cover che ne fece Madonna nel 2000. La sua “American Pie” è stata un successo, colonna sonora del film di John Schlesinger “Sai che c’è di nuovo?” (The Next Best Thing) dove recitava come protagonista insieme a Rupert Everett.

Nell’iconico videoclip Madonna in jeans patchwork, canotta e coroncina da reginetta, balla il mito americano. Alle sue spalle un’enorme bandiera degli Stati Uniti e una carrellata di simboli ed immagini che celebrano il suo Paese.

Madonna – “American Pie” (2000)


La storia di “American Pie” inizia il 3 febbraio 1959, il giorno in cui tre vere e proprie icone del Rock’n’Roll persero la vita in un terribile incidente aereo. Erano Buddy Holly, J. P. “The Big Bopper” Richardson e Ritchie Valens (rispettivamente di 22, 28 e 17 anni) insieme al pilota Roger Peterson, solo ventunenne e purtroppo inesperto.

Viaggiavano insieme per il tour “White Dance Party” che prevedeva 24 concerti in 24 città diverse tra il 23 gennaio e il 15 febbraio. Gli spostamenti erano lunghi, snervanti, il tour non era stato organizzato nel migliore dei modi. Viaggiavano su un pullman scassato che si rompeva spesso costringendoli a lunghe attese per le riparazioni, al gelo sul ciglio della strada.

Il 2 febbraio erano a Clear Lake in Iowa, il giorno dopo avevano un concerto in Minnesota e quello successivo sarebbero dovuti tornare a suonare in Iowa. Buddy Holly non ce la faceva più, decise di noleggiare un piccolo aereo per rendere più veloce e semplice quell’ennesimo spostamento. Qui entra in gioco il destino: non ci stavano tutti, chi sale sull’aereo e chi sul pullman? Le versioni non coincidono: c’è chi racconta che Richardson chiese di poter salire in aereo perché malato e che Valens vinse il posto a testa e croce con il chitarrista di Buddy Holly, altri dicono che fosse già tutto deciso così. Nevicava, la visibilità era molto bassa, il pilota era inesperto e non era stato ben informato delle condizioni meteo. Il piccolo aereo precipitò quasi subito, lo trovarono a pochi chilometri dal punto della partenza.


La notizia causò un grande shock negli Stati Uniti, anche se giovanissimi i tre erano già delle star del Rock’n’Roll. Buddy Holly era in televisione da quando aveva 16 anni, aveva aperto i concerti di Elvis Presley, i suoi occhiali con la montatura spessa erano (e sono ancora) un’icona e con la sua Fender Stratocaster aveva inventato uno stile che prima non c’era, la sua hit più famosa: “Peggy Sue”. Ritchie Valens era il più giovane, il suo stile mescolava il Rock’n’Roll con la musica Latina, sua è una delle canzoni più famose degli anni ’50 “La Bamba”. E poi c’era Richardson, texano come Buddy Holly, che aveva sbancato con la sua “Chantilly Lace”.

Questo triste incidente in America è ricordato come “Il giorno in cui la musica morì”, espressione presa da un verso (The day the music died) della celebre canzone “American Pie” di Don McLean uscita molto più tardi, nel 1971. Nel 1959 McLean aveva 13 anni e si guadagnava qualche soldo consegnando i giornali e la notizia la apprese proprio così: campeggiava su tutte le prime pagine di quelle pile di giornali da consegnare.

Don McLean – “American Pie” (copertina)

Quell’incidente fu una vera e propria tragedia mai dimenticata per il ragazzino Don McLean che si tradusse in musica molti anni dopo. “American Pie” fu pubblicata nel 1971 nell’omonimo album e nel retro copertina si legge la scritta “Dedicated to Buddy Holly”. Dura 8 minuti e mezzo e raggiunse la prima posizione nelle classifiche Billboard Hot 100 per quattro settimane diventando una pietra miliare della musica leggera americana.

Volvevo scrivere una grande canzone sull’America e sulla politica, ma volevo farlo in un modo diverso. Mentre stavo suonando, ho iniziato a cantare qualcosa sull’incidente di Buddy Holly, che faceva così: “Long, long time ago, I can still remember how that music used to make me smile” (Molto, molto tempo fa, riesco ancora a ricordare come quella musica mi faceva sorridere). Ho pensato “Wow!” e poi “The day the music died” è venuta così, di conseguenza e ho pensato fosse una bella idea.

Don McLean

Il testo della canzone è molto lungo e negli anni è stato interpretato in molti e diversi modi. “American Pie” prende quel terribile incidente come metafora della perdita dell’innocenza della generazione che aveva assistito alla nascita del Rock’n’Roll negli anni ’50 e si avviava verso periodi più oscuri sia nella musica sia nella politica.

Una spiegazione l’ha poi data Don McLean nel suo sito web: «Sono molto orgoglioso della canzone. È di natura biografica e non credo che nessuno l’abbia mai capito. La canzone inizia con i miei ricordi della morte di Buddy Holly, ma continua a descrivendo l’America mentre la vedevo e come stavo immaginando che potesse diventare. Quindi è in parte realtà e in parte fantasia, come quando sogni qualcosa che cambia in qualcos’altro ed è illogico quando ci ripensi al mattino, ma quando stai sognando sembra perfettamente logico. (…) Ecco perché non ho mai analizzato i testi delle canzoni. Sono al di là dell’analisi. Sono poesie».


Tanto tanto tempo fa / Ricordo come quella musica mi facesse sorridere 
E sapevo che se avessi avuto la mia occasione / Avrei fatto ballare quella gente 
E forse sarebbero stati felici per un po’.
Ma febbraio mi faceva venire i brividi / Ogni volta che consegnavo i giornali  
Lasciavo brutte notizie davanti alla porta / Non potevo andare avanti così.
Non ricordo se ho pianto / Quando ho letto della sua sposa rimasta vedova  
Ma qualcosa mi ha toccato nel profondo / Il giorno in cui la musica morì.


Grazie al successo ottenuto con “American Pie” Don McLean divenne famoso molto velocemente e questo lo porterà a vivere anche un periodo di depressione. “American Pie” è un successo ancora oggi e sono stati moltissimi negli anni i musicisti che si sono cimentati in cover ed interpretazioni, tra cui la famosissima versione di Madonna che così commenta McLean:

«Madonna è un colosso dell’industria musicale e sarà anche un’importante figura nella storia della musica. È una brava cantante, una brava cantautrice e produttrice discografica, e ha il potere di garantire il successo a qualsiasi canzone che sceglie di registrare. È un regalo per lei aver registrato “American Pie”. Ho sentito la sua versione e penso che sia sensuale e mistica. Penso che abbia scelto di cantare i versi per lei più autobiografici che riflettono la sua carriera e la sua storia personale. Spero che la gente si chieda cosa sta succedendo alla musica in America. Ho ricevuto molti doni da Dio, ma questa è la prima volta che ricevo un dono da una dea» .

Don McLean – “American Pie” (live alla BBC, 1972)
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Vivo per… lei: da Sanremo con gli O.R.O. al successo internazionale di Bocelli e Giorgia

Siamo nella fatidica settimana di Sanremo, il momento dell’anno in cui tutta Italia parla di Musica. O almeno così dovrebbe essere, al netto delle classiche e infinite polemiche costruite o meno a tavolino. Sul palco dell’Ariston sono nate tante bellissime canzoni tra cui una che è diventata una dichiarazione d’amore per colei che dovrebbe essere la vera protagonista assoluta di questa kermesse: la Musica.

Vivo per lei da quando sai
la prima volta l’ho incontrata,
non mi ricordo come ma
mi è entrata dentro e c’è restata.
Vivo per lei perché mi fa
vibrare forte l’anima,
vivo per lei e non è un peso.

“Vivo per lei” quest’anno copie 25 anni ed è già un classico della canzone italiana, uno standard italiano moderno conosciuto nel mondo per l’indovinatissimo duetto tra Andrea Bocelli e Giorgia. In pochi però conosco la sua storia che è nata proprio sul palco di Sanremo nel 1995.

“Vivo per…” è la prima traccia dell’album di debutto degli O.R.O. (acronimo per Onde Radio Ovest) pubblicato nel 1995 dalla Sugar Music di Caterina Caselli. Gruppo nato dall’unione di cinque musicisti (Mauro Mengali, Valerio Zelli, Mario Manzani, Alfredo Golino e Cesare Chiodo) che dopo anni di esperienza e collaborazione con i nomi più importanti della musica italiana decisero di fondare un gruppo.

O.R.O. – “Vivo per…” (Sanremo Giovani 1995)


Con “Vivo per…” gli O.R.O. nel 1995 partecipano alla manifestazione “Un disco per l’estate” senza ottenere un particolare successo, ma andrà meglio qualche mese dopo quando sempre con questa canzone vincono “Sanremo Giovani” ottenendo di diritto la partecipazione al Festival l’anno seguente.

È il brano che li consacra al successo e nella versione originale degli O.R.O. era una canzone d’amore dedicata ad una donna; divenne la “Vivo per lei” che conosciamo solo dopo e come spesso succede grazie ad una serie di fortunate coincidenze. Nel 1995 Andrea Bocelli stava incidendo il suo secondo album, mancavano ancora alcune canzoni per completarlo e il suo produttore Michele Torpedine pensò al singolo degli O.R.O. e propose di farne una cover.

Torpedine volle cambiare il testo per aggiungere originalità al pezzo e si affidò a Gatto Pancieri che in quel momento stava scrivendo le canzoni per l’album “Come Thelma e Louise” di Giorgia. Fu a Pancieri che venne l’idea di cambiare la prospettiva della canzone: non una dedica d’amore ad una donna, ma alla Musica!

Ho completato il testo in macchina, venendo a Milano da Bologna, dove stavo lavorando con Giorgia C’era una nebbia fortissima, e mentre guidavo ho buttato giù le parole sul registratore che porto sempre con me. È una canzone nata di getto: a volte capita che ci siano dei parti così istintivi, che di solito portano a una grande naturalezza nel risultato. Bocelli ha sentito la canzone e si è entusiasmato.

Gatto Pancieri

Nasce così questa bellissima poesia d’amore che ha avuto la fortuna di essere interpretata da due splendide voci della musica italiana ancora una volta grazie al caso e non ad una premeditata operazione commerciale come si potrebbe pensare. Mentre Bocelli era in studio di registrazione a provare il pezzo, passò di lì Giorgia (Michele Torpedine era il produttore di Bocelli e anche di Giorgia) che si innamorò del brano e così venne l’idea di trasformarla in un duetto.

Andrea Bocelli e Giorgia – “Vivo per lei” (1995)


“Vivo per lei” fu inserita nell’album “Bocelli” insieme alla celeberrima “Con te partirò”, uno dei maggiori successi internazionali della musica italiana che lanciò il talento di Bocelli nel mondo e con cui il cantante era arrivato al quarto posto al Festival di Sanremo 1995 (il festival fu vinto da Giorgia con “Come saprei”).

“Vivo per lei” visse per un po’ all’ombra del grande successo di “Con te partirò”, ma pian piano entrò nel repertorio di molti musicisti di piano bar e nei locali di karaoke. La sua popolarità così aumentò pian piano e scoppiò definitivamente grazie al lancio internazionale della raccolta “Romanza” grazie a cui Bocelli diventerà uno dei cantanti italiani più famosi al mondo.  

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Sognando la California: dalla New York dei Mamas&Papas a Milano con i Dik Dik

È una fredda e grigia giornata d’inverno a New York e se sei nato sotto il sole della California la nostalgia di casa deve essere molta. Sei una bellissima ragazza, novella sposa, trasferita nella Grande Mela con il marito che scrive canzoni e sta cercando di farsi una strada nell’ambiente musicale. Lui di notte non riesce a dormire, cammina avanti e dietro alla ricerca di un’ispirazione e una mattina ti sveglia, l’ispirazione è arrivata e ti canta i primi versi di un pezzo che sembra proprio funzionare:

“All the leaves are brown and the sky is grey
I’ve been for a walk on a winter’s day
I’d be safe and warm if I was in L.A.”

Era l’inverno nel 1963, lei è Michelle Gilliam e lui è John Phillips. Al tempo il loro gruppo si chiamava “The New Journeymen”, dopo poco conosceranno Denny Doherty e Cass Elliott con cui formeranno i The Mamas & The Papas. “California Dreamin’” è stato il loro primo grande successo ed è nata proprio così.

The Mamas & The Papas – “California Dreamin’” (1966)


La prima pubblicazione di “California Dreamin’” però non è stata quella dei The Mamas & The Papas, ma fu cantata da Barry McGuire, anche se con i loro cori e la chitarra di John Phillips. McGuire aveva presentato il gruppo ad un discografico famoso, Lou Adler della Dunhill Records, e fu il loro modo per ringraziarlo.

“California Dreamin’” fu pubblicata per la prima volta all’inizio del 1965 nell’album di Barry McGuire “This Precious Time”, ma la voce grave di McGuire non rendeva giustizia al pezzo che non fu notato e non ebbe successo. I The Mamas & The Papas se la ripresero e la pubblicarono come singolo per la Dunhill Records l’8 dicembre 1965 e fu inserita anche nel loro album di debutto “If You Can Believe Your Eyes and Ears” nel febbraio del 1966.

Barry McGuire – “California Dreamin'” (1965)


All’inizio non fu un successo, iniziò a farsi conoscere pian piano sembra grazie ad una stazione radio di Boston che iniziò a passarla e solo dopo qualche mese negli Stati Uniti divenne “la” canzone del 1966 e i The Mamas & The Papas, con il loro look stravagante e il sound folk, diventarono tra i protagonisti del movimento Hippy di quegli anni.

La forza di “California Dreamin’” sta anche nel suo particolare arrangiamento: si tratta infatti di una delle poche canzoni Pop a contenere un assolo di flauto. John Phillips durante la registrazione del pezzo cercava qualcosa di innovativo rispetto al solito assolo di chitarra e incrociò per caso il famoso jazzista Bud Shank, flautista e sassofonista negli studi in cui stavano registrando (i Western Recorders di Hollywood, dove Beach Boys registrarono pochi mesi prima il loro “Pet Sounds”).

Shank ascoltò il pezzo e incise al primo tentativo l’assolo di flauto contralto che fu mantenuto e pubblicato. Una nuova e originale sonorità che ha aiutato a rendere “California Dreamin’” il celebre brano folk, nomade e rock che conosciamo.

“California Dreamin’” divenne famosa in tutto il mondo e lo è ancora. È stata suonata e cantata da tantissimi, usata come colonna sonora di molti film e in Italia la conosciamo come “Sognando la California” il primo grande successo dei Dik Dik.

Dik Dik – “Sognando la California” (1966)


La storia si ripete: ancora degli incontri casuali e un pezzo che porta fortuna ad una band emergente. Come è nata questa storica cover lo raccontano i Dik Dik nel loro sito ufficiale:

“Verso i primi giorni dell’estate del ’66, mentre mi aggiravo negli uffici della Ricordi, passando nei corridoi mi capitò di sentire un motivo molto coinvolgente al punto che incuriosito mi affacciai all’ufficio da dove proveniva il motivo e chiesi che canzone fosse. Mi risposero che dagli Stati Uniti erano appena arrivate le ultime novità discografiche. Terminata la canzone, sfilai il disco dalla piastra e ne lessi l’etichetta: era un gruppo vocale di cui non avevo mai sentito parlare, possedeva un insieme di voci molto interessante, lessi il nome: Mamas and Papas.

Fu un vero colpo di fulmine, la canzone fin dalle prime note era potente e accattivante, possedeva tutti i numeri per diventare un grande successo, sfilai dal giradischi il 45 giri e mi precipitai dal direttore artistico, Iller Pattacini, e gli dissi: che avevo tra le mani una vera bomba e che avrei voluto farne una versione in italiano: poi lessi, il titolo, California Dreamin’.

La cover si fece e l’adattamento italiano del testo fu scritto da Mogol e ancora oggi “Sognando la California” è uno dei brani simbolo dei Dik Dik. Fu un successo clamoroso, salì subito al secondo posto della Hit Parade di Lelio Luttazzi stabile per settimane dietro a “Strangers in the Night” di Frank Sinatra e lanciò la carriera dei Dik Dik. Erano gli anni della Beat e del boom italiano del Folk, dei Beatles e di Bob Dylan.

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Il “Blue Monday” che vi fa ballare

Da qualche anno parlando di “Blue Monday” ci si riferisce al lunedì più triste dell’anno che secondo uno studio dello psicologo Cliff Arnall, professore dell’Università di Cardiff, cade il terzo lunedì di Gennaio. Risultato di complessi calcoli tra l’estate lontana, le vacanze natalizie finite, la ripresa dell’attività lavorativa e un anno da affrontare.

Se si parla di “Blue Monday” nel mondo della musica non si può che pensare immediatamente ad un bellissimo pezzo che ha fatto la storia, lontano da queste deprimenti teorie e che sicuramente almeno una volta vi avrà fatto ballare.


“Blue Monday” è il più grande successo dei New Order che dal 1983 ha scalato le classifiche di mezzo mondo. Con oltre 3 milioni di copie vendute è diventato il singolo in 12 pollici più venduto di tutti i tempi e uno dei brani più influenti e simbolo della musica elettronica. Non male per un pezzo che nella versione originale dura 7 minuti e 23 secondi!

Siamo nell’Inghilterra anni ’80 e i New Order nascono dalle ceneri di un altro super gruppo, i Joy Division. Dopo la morte del frontman Ian Curtis, i componenti rimasti si riformarono come New Order: continuarono a mescolare post-punk ed elettronica allontanandosi dalle atmosfere più cupe e gotiche per abbracciare sonorità ballabili e diventarono uno dei più importanti gruppi di musica elettronica di sempre.

Blue Monday non è una canzone, è una sensazione, ma una volta che le persone sentono quel riff di batteria vanno fuori di testa. – Peter Hook, New Order

La storia di “Blue Monday” oggi si mescola tra mito e leggenda. In molti pensavano che il testo si riferisse alla morte di Ian Curtis, ma è stato smentito. Come è stato smentito il riferimento al conflitto per il controllo delle Isole Falkland. Potrebbe invece parlare di abuso di droghe, di una relazione conflittuale o delle persecuzioni sulle minoranze gay.

Di certo si sa che “Blue Monday” è nata dalla delusione data dal fatto che il pubblico ai concerti dei New Order non avesse mai chiesto un bis. Così pensarono a questo semplice pattern ritmato come riempitivo per permettere loro di ritornare sul palco, ma la storia si è evoluta e lo ha trasformato in una super hit.

La prima pubblicazione del singolo risale al 7 marzo 1983 ed è uscito in vinile 12 pollici dalla confezione particolarissima e costosissima. Era una perfetta riproduzione di un floppy disk 5¼” senza il nome del gruppo e nemmeno il titolo del singolo. Le informazioni erano contenute sul dorso in un codice crittografato formato da quadratini colorati che andavano decifrati con una legenda stampata sul retro dell’album “Power, Corruption & Lies”.

Tra le mille curiosità e storie che si rincorrono c’è anche un’accusa di plagio. “Blue Monday” è stato anche al centro di un forte dibattito: sembrerebbe essere una palese ripresa del brano “Gerry and the Holograms” pubblicato quattro anni prima dall’omonima band “Gerry and the Holograms” originaria di Manchester, proprio come i New Order.

Centinaia di persone mi hanno chiesto come mi sento per il fatto che i New Order si siano appropriati della nostra musica. A meno che non avessi vinto alla lotteria, non potevo permettermi di combattere una battaglia [legale]. È una situazione alla Davide contro Golia ad essere onesti. Non posso permettermi di avere un’opinione”. – John Scott, Gerry and the Holograms

Eccola qui:

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“Se telefonando” e la sirena della polizia di Marsiglia

Come creare una canzone italiana di successo? Semplice: il testo lo scrive Maurizio Costanzo con Gigho De Chiara, della musica ci pensa Ennio Morricone e poi la canta Mina. Aggiungeteci giusto quel guizzo di genialità e d’ispirazione, che può arrivare anche da una banalissima sirena della polizia di Marsiglia, e così è nata nel 1966 “Se telefonando”.

La storia di “Se telefonando” è una leggenda che si rincorre da anni, di cui recentemente ha dato conferma Maurizio Costanzo in persona durante un’intervista radiofonica. Racconta Costanzo che il pezzo è nato come sigla del programma Rai “Aria condizionata” spin-off della famosa trasmissione “Studio Uno”. De Chiara aveva lavorato con Morricone ad uno spettacolo teatrale e provò a chiedergli se volesse scriverne la musica e Morricone accettò. Così un giorno Costanzo si trovò a casa di De Chiara a lavorare sul pezzo, mentre Morricone era collegato con loro telefonicamente e qui il colpo di genio:

Morricone al telefono interveniva e diceva “Pensate alla sirena della polizia di Marsiglia”. Io ebbi la fortuna di dire la parola “telefono”, sostenendo con De Chiara che il telefono stava andando di moda in quegli anni. Nacque “Se telefonando”.

Maurizio Costanzo

Per quanto assurdo possa sembrare, lo spunto creativo di questa canzone indimenticabile nasce dal suono della sirene della polizia di Marsiglia sui cui Morricone basa la ripetizione del tema principale. Poche, semplici, note per creare un capolavoro. Come sia possibile lo spiega bene Rocco Tanica degli Elio e le Storie Tese in quest’intervista, esempio al pianoforte incluso, in cui descrive “Se telefonando” come un miracolo fatto di quattro note:


“Se telefonando” è una canzone molto difficile da eseguire vocalmente. L’eleganza e la maestria nella scrittura hanno permesso a Morricone di scrivere una strofa sola a cui segue un ritornello che insegue se stesso quasi all’infinito: un continuo crescendo musicale che riprende perfettamente l’emozione raccontata dal testo.

Chi poteva trovarsi a suo agio in questo labirinto melodico e dare la voce ad una delle canzoni pilastro della musica italiana? Maurizio Costanzo racconta come con fortuna siano riusciti a contattare Mina: si trovarono lui, De Chiara, Morricone, Mina e il suo impresario nel centro di produzione Rai di Via Teulada a Roma; Morricone si mise al pianoforte e suonò “Se telefonando”, un attimo dopo Mina chiese il testo e con una naturalezza che Costanzo racconta lasciò tutti i presenti stupiti, la cantò.

Mina chiese solo di apportare una piccola modifica al testo che nella versione originale recitava “poi nel buio la tua mano, d’improvviso sulla mia”, il verso poteva risultare ambiguo e fu cambiato con “poi nel buio le tue mani, d’improvviso sulle mie”.

Nell’estate del 1966 “Se telefonando” era in tutti i juke-box italiani. Era l’anno dei mondiali di calcio, quelli di Inghilterra- Germania 4 a 2 dopo i supplementari e sotto l’ombrellone questa breve storia d’amore consumata in una notte d’estate mette d’accordo giovani e “matusa”.

Mina – “Se telefonando” (1966)


Divenne subito un successo pubblicato nel nono album di Mina “Studio Uno 66”, la raccolta delle canzoni scritte per la quarta edizione della trasmissione televisiva “Studio Uno”, programma di varietà condotto da Mina stessa. La storia di “Se telefonando” non finisce qui, ma diviene anche un videoclip, o meglio un video pubblicitario per il Carosello, l’MTV ante litteram di quei tempi.

Mina era testimonial per la Barilla e girò diversi spot diretti dal geniale Pietro Gherardi, architetto, scenografo e costumista di Federico Fellini, vincitore di due premi Oscar per i costumi di “8 e mezzo” e “La Dolce Vita”. Gherardi ambienta le pubblicità Barilla in luoghi strani, non consueti per degli spot televisivi e fa indossare a Mina abiti molto particolari e tassativamente neri.

Il video di “Se telefonando” è stato girato sui tetti della stazione ferroviaria di Napoli ancora in costruzione. Sono immagini senza tempo, Mina è bellissima e indossa un abito meraviglioso quasi un’opera di architettura che la avvolge con delle spire a ricordare i fili del telefono.

Sarebbe solo un carosello per la pubblicità della pasta Barilla che recitava “B come buona cucina, B come Barilla”, ma la bellezza è tale da rendere questo e gli altri video di Gherardi dei mini-capolavori di stampo felliniano. Documentano l’Italia anni ’60, gli anni della ricostruzione, del boom economico, gli anni in cui l’Italia faceva sognare il mondo con il cinema, la musica e ovviamente… la pasta!

L’Archivio Storico Barilla li raccoglie tutti e potete riguardarli cliccando qui.